A Napoli serve il governo dello spazio pubblico.

A Napoli serve il governo dello spazio pubblico.

È noto che ogni insediamento umano, a partire dalla sua forma più sofisticata esistente dall’alba della civilizzazione, la città, costituisce un modello sociale umano complesso che tende a definirsi in rapporto allo spazio.
Allo spazio esterno, in cui tradizionalmente per secoli si è articolato il rapporto città-campagna, inteso come snodo di mercati e di mercanti, di flussi di merci e di capitali. Ma anche rispetto allo spazio interno, con i significanti dei rapporti di potere economici e sociali e, a monte, della sovranità politica.
Basti pensare ai palazzi reali, o anche, all’epoca comunale, il palazzo del potere cittadino, al fiorentino palazzo della Signoria, o alla San Giovanni in Laterano al Vaticano e poi al Vaticano dei papi. Questa è ancora la funzione dello spazio delle città nella contemporaneità. Ci vorrebbe un simposio di urbanisti come di filosofi, e di economisti anche, per arrivare una approssimativa definizione del concetto di spazialità. Ma si può ancora riflettere sulle elaborazioni del filosofo Henri Lefebvre e condividere la tesi che è a partire dallo sguardo di chi si trova ai margini che è possibile costruire una critica dello spazio urbano, che si abita ma da cui si viene anche abitati, cioè, collocati in una scala sociale e simbolica.
E però, senza andare troppo in là e abbassando le aspettative al livello di un punto di osservazione meno elaborato, a qualche conclusione si arriva lo stesso. Vivendo a Napoli, viene da chiedersi che uso si fa del suo spazio urbano. Non è una città costruita negli spazi Napoli.
Anzi, per secoli rinserrata dentro le sue mura e popolatasi con densità inverosimile, solo nel ventesimo secolo ha avuto una decisa espansione verso l’esterno. Prima inglobando comuni del contado con l’allargamento dei confini amministrativi voluta dal fascismo. Poi dilatandosi sempre di più, in uno sprawl urbano che si protende senza soluzione di continuità soprattutto a nord verso il casertano.
Ma la domanda in tempi di turistificazione e di esplosione del fenomeno di un’offerta ricettiva e di ristorazione autoreplicante e autolegittimantesi incalza: che ne è dello spazio pubblico in questa città? Curiosamente si può osservare che uno dei primi atti di rottura, una volta introdotta l’elezione diretta dei sindaci, fu da parte dell’allora primo cittadino la liberazione di Piazza del Plebiscito da un orrendo e incongruo megaparcheggio.
Un atto, dunque, di governo dello spazio urbano. Invece i suoi successori, per incuria quando non per eccessiva fiducia negli spiriti selvaggi dell’impresa “fai da te”, hanno consentito una saturazione della città e dei suoi spazi. Vale soprattutto per il “corpo di Napoli”, i vicoli e le strade del Centro storico Unesco e dei quartieri. Si è consentita una saturazione dello spazio urbano e un mutamento della funzione sociale di un pezzo sempre più ampio di Napoli. Che ne sta uscendo trasformata, come trasforma – da abitante a quasi ospite della propria città – chi ancora vive in quei luoghi e soprattutto chi ne è stato espulso dalle esigenze della rendita immobiliare che sta moltiplicando la sua portata.
Mentre scompare la funzione produttiva e insieme si costruisce un immaginario disneyficato prodotto da un orientalismo introiettato; si costruisce un’immagine di Napoli come viene raccontata nei più triviali luoghi comuni o da volgari semplificazioni. E passa l’idea di una cultura di consumo collaterale al turismo a basso costo, proprio a Napoli in cui è sempre stata di casa una cultura alta non separata dal corpo urbano.
Quello che manca, insomma, una volta passata la sbornia del benecomunismo, è un governo pubblico dello spazio urbano che non può essere lasciato né alla rendita, né alla sola capacità di intercettare risorse pubbliche per opere di rigenerazione urbana o di valorizzazione del capitale immobiliare. Che sono necessari, beninteso, ma che solo in un quadro di sviluppo complessivo verranno ben indirizzate.
Manca un governo della cosa pubblica per il quale occorre una visione, un progetto e, diciamolo così, una élite democratica che sappia usare il potere. Niente di tutto questo si vede se non in modo sfocato e indeciso. E questo è un problema per tutti. Perché senza una direzione consapevole, come spesso accade in questa città, i progetti diventano altra cosa da quello per cui sono stati pensati e messi in opera.
Raffaele Cimmino