Andrea Mansi: dall’abbraccio alla madre all’ingiusto tragico destino a Napoli

Andrea Mansi: dall’abbraccio alla madre all’ingiusto tragico destino a Napoli

 

Andrea Mansi era nato a Ravello, il 24 aprile del 1919; era un marinaio di leva e – in quei tragici mesi del 1943- si trovava a prestare servizio presso l’Ospedale Militare di Fuorigrotta. Aveva ottenuto pochi giorni di licenza, che gli erano serviti per tornare ad abbracciare la sua mamma –Angelina Rispoli- nell’incanto delle sue contrade, nello splendore della costiera amalfitana. La mattina del 12 settembre Andrea, dopo aver pregato ai piedi della statua della Vergine del Lacco, completamente all’oscuro delle decisioni assunte dai vertici politici e militari italiani, aveva ripreso –con mezzi di fortuna: un tratto a piedi attraverso i monti di Gragnano e, poi, in treno da Castellammare di Stabia- la strada per Napoli. Giunto all’Ospedale di Fuorigrotta, non aveva trovato anima viva: erano tutti spariti, volatilizzati. Ancora ignaro degli ultimi eventi, chiuso nella sua divisa militare estiva (bianca) della Regia Marina, aveva deciso, quindi, di incamminarsi verso il centro della città. Chissà che non fosse stato fortunato nell’incontrare qualche suo commilitone!

Lungo la strada, però, Andrea, riconosciuto dai tedeschi proprio per la sua divisa bianca, era stato fatto prigioniero ed ingiustamente accusato di aver attentato alla vita di un soldato di Hitler ed anche di aver partecipato ad azioni, non meglio specificate, di sabotaggio. In realtà il suo arresto doveva servire da monito ai focolai di rivolta, che si stavano accendendo contro le soldataglie occupanti. 

Andrea, con quanto fiato aveva in corpo, tentò di difendersi dall’accusa e acclarare la sua innocenza. Ripetè più volte, nel dialetto della sua Ravello, di essere immune da ogni colpa: Mammà, n’’aggio fatto niente! Mammà, n’’aggio fatto niente!

Ma a nulla valsero le proteste del giovane ravellese. Dopo essere stato spintonato a colpi di calcio di fucile, fu, infatti, trascinato sulle scale dell’Università Federico II (ancora in fiamme), per essere giustiziato davanti ad una folla costretta ad applaudire e sotto l’obiettivo di una macchina da presa della Gestapo. Inizialmente, Andrea Mansi addirittura fu spinto verso il portone dell’Università da cui uscivano le lingue di fuoco, quasi a tentare di bruciarlo vivo. Poi, legato ad un’anta rovente del portone universitario, divenne il facile bersaglio delle mitragliatrici tedesche. “Il giovane gridava sempre, e noi, costretti a stare in ginocchio, agghiacciavamo di orrore; alcuni imploravano grazia per lo sventurato. Nove tedeschi, con i fucili puntati sul giovane, si disposero alla base della gradinata. Poi si udirono un ordine e una raffica. Il corpo straziato si abbatté al suolo. Ma non bastava: un ufficiale tedesco, preso uno dei fucili, mirò alla fronte del morto, e tirò anche lui.

Per alcuni anni quella giovane vittima dei tedeschi fu creduto essere un marinaio di Livorno, senza nome, tanto che, -l’11 novembre 1944- per deliberazione del Senato Accademico dell’Università di Napoli (Rettore Adolfo Omodeo), fu fatta affiggere una lastra marmorea a ricordo di un non bene individuato marinaio italiano ucciso dalla ferocia tedesca: “Su questa soglia della casa della Scienza/ La ferocia tedesca uccideva/ il giorno XII settembre MCMXLIII/ Un marinaio italiano/ Per simulare un pretesto al meditato incendio/ dell’Università sette volte gloriosa nei secoli/ Risorta dalle fiamme l’Università/ Consacra al culto dei giovani/ Che si succederanno nei secoli/ La pietra da cui si leva/ Il grido di sangue d’Abele/ E la condanna del peccato irremissibile/ Perpretato contro lo spirito immortale”. Ed una lapide posta alla Stazione Marittima ne tramandò memoria con i versi di una poesia (‘O marenaro) scritta da Aldo de Gioia: “Surdato ignoto resta senza nomme, ma è ricurdato per ll’eternità”.

Nel marzo del 1951, però, fu ricostruita la tragica storia del marinaio Andrea Mansi ed i suoi resti potettero avere meritata sepoltura nella nativa Ravello.

 

Ciro Raia