Aborto: dalla Francia all’antica Napoli, da turning point di civiltà a status sociale
Aborto: dalla Francia all’antica Napoli, da turning point di civiltà a status sociale
“Mon corps, mon choix”, ovvero “mio il corpo, mia la scelta”, è lo slogan che riecheggia oggi al di sopra della Torre Eiffel, illuminata a festa dalla scritta “my body, my choice” e dalla piazza sottostante che gioisce all’unisono per quella che si è consolidata già come una delle rivoluzioni culturali europee più importanti degli ultimi anni: in Francia si festeggia l’introduzione del diritto all’aborto nella Carta costituzionale.
All’articolo 34 della Costituzione francese, infatti, è stata aggiunta la frase: “La legge determina le condizioni in cui si esercita la libertà garantita alla donna di far ricorso ad un’interruzione volontaria della gravidanza”.
Con questa semplice chiosa, la Francia ottiene il primato mondiale sul tema dell’aborto, in qualità di primo Paese ad averlo garantito costituzionalmente e, quindi, imprescindibilmente. Sorge spontanea però la questione altrettanto radicata: come mai è così importante, proprio nel paese della Torre Eiffel, che l’aborto sia stato introdotto in Costituzione?
Ebbene, la scelta trae origine da una solta di “soluzione-salvaguardia” di un diritto già largamente consolidato nel 1975, anno in cui il diritto all’aborto divenne legale in Francia. Come tacitamente ha dichiarato lo stesso Macron, l’introduzione in Costituzione dell’interruzione volontaria di gravidanza andrebbe rappresenta un “debito morale” che la società moderna, il più delle volte maschilista e machista, spesso cieca sulle tematiche inerenti alla sessualità e la violenza di genere, ha nei confronti delle donne, in particolar modo viste le derive autoritarie e anti-abortiste dei governi europei e non di “Trump, Bolsonaro, Orban, Milei, Putin, Giorgia Meloni, senza dimenticare i mullah e i dittatori teocratici”.
Incatenare la fattispecie alla Costituzione riesce a impedire ai futuri governi di Parigi di limitare a piacimento politico l’accesso all’Igv perché obbligherebbe qualsiasi proposta legislativa a scontrarsi con il Consiglio Costituzionale.
Il ragionamento in questione quadra in quanto il progresso socioculturale francese è approdato dopo circa 50 anni a una decisione così elevata, un vero e proprio turning point di civiltà, ma conosciamo bene la realtà viscerale della clandestinità in materia di aborto.
L’Italia resta uno dei contesti meno fertili in tema di propositività sulla materia, al punto da rilegare, negli stessi anni in cui in Francia si legiferava del ’75 sul diritto all’aborto, i cittadini ad appoggiarsi alle cure, spesso dubbie, sperimentali o estreme, di medici (o talvolta santoni), nelle ombre di salotti e laboratori, nascosti dalla società che si avvolgeva alla bambagia del buon costume. E Napoli era uno dei pochi spiragli del sud Italia dove famiglie, coppie o donne sole potevano sperare di trovare una risoluzione alla loro affannosa ricerca di speranza.
Nel dopoguerra si parlava di “aborto clandestino” ogni qualvolta si andava a infrangere il dogma dell’allora vigente Codice Penale Rocco, in base al quale le pene, tanto per la donna che abortiva quando per il medico che praticava l’aborto, erano decisamente aspre, in quanto la stessa pratica ricadeva nelle fattispecie di reati contro l’integrità della stirpe. Infatti, citando il Codice Penale del tempo, al Libro II, Titolo X: “Dei delitti contro la integrità e la sanità della stirpe”:
- art. 545, “Aborto di donna non consenziente”
Chiunque cagiona l’aborto di una donna, senza il consenso di lei, è punito con la reclusione da sette a dodici anni;
- art. 546, “Aborto di donna consenziente”
Chiunque cagiona l’aborto di una donna, col consenso di lei, è punito con la reclusione da due a cinque anni. La stessa pena si applica alla donna che ha consentito all’aborto. Si applica la disposizione dell’articolo precedente:
- se la donna è minore degli anni quattordici, o, comunque, non ha capacità d’intendere o di volere;
- se il consenso è estorto con violenza, minaccia o suggestione, ovvero è carpito con inganno;
- art. 547, “Aborto procuratosi dalla donna”
La donna che si procura l’aborto è punita con la reclusione da uno a quattro anni;
- art. 548, “Istigazione all’aborto”
Chiunque fuori dei casi di concorso nel reato preveduto dall’articolo precedente, istiga una donna incinta ad abortire, somministrandole mezzi idonei, è punito con la reclusione da sei mesi a due anni.
Nonostante le sanzioni così impegnative, nel buio della clandestinità, l’aborto si praticava e lo si chiamava in altro modo; a Napoli lo si nascondeva dietro la facciata di un malessere diffuso e non ben definito, ma che doveva essere risolto: “‘o mpiccio” oppure “‘o guajo”.
Per anni le donne più povere erano costrette a risolvere il loro “impiccio” (o il loro guaio) con metodi rudimentali, usando un catetere che, introdotto nell’utero, provocava emorragie copiose che comportavano un aborto spontaneo e il successivo raschiamento. Ma, come ad oggi la costituzionalità francese dell’aborto è un turning point culturale, all’epoca il poter abortire in uno studio privato era sintomo di uno status per pochi.
L’alta borghesia napoletana faceva riferimento a poche figure professionali, rinomate nel mondo della clandestinità sanitaria per questi “impicci” da risolvere. Le cifre erano ovviamente esorbitanti, fuori portata del ceto medio-basso, e le soluzioni ai “guai” erano spesso tanto clandestine quanto le dinamiche degli incontri in questi studi di via Caracciolo e di Piazza Amedeo così elitari: c’è chi adoperava metodi non dissimili dal “laccio” usato dalla povera gente, chi preferiva nostalgicamente optare per “pozioni venefiche”, avvelenando il corpo della madre e di conseguenza del feto, altri si limitavano a costruire business milionari propinando soluzioni decisamente più sommarie e spesso inconcludenti, altri ancora guardavano l’orizzonte e scorgevano soluzioni provenienti da altre realtà, come l’aspirazione o sperimentazioni farmacologiche meno tossiche.
La condizione italiana nel 2024 non è così dissimile da quella della Napoli di inizio anni ’80, configurando un calderone di soluzioni alternative che mettono a repentaglio le vite e la dignità delle donne che, innanzi ad altissime mura di omertà e obiezione, non riescono a trovare, spesso, altre scelte oltre la clandestinità.
A cura di Mario Marrandino