Adriana Cavarero: il femminismo tra Zoè e Bios

Adriana Cavarero: il femminismo tra Zoè e Bios

 

di Evelina Parente

 

Adriana Cavarero non ha mancato di fare tappa a Napoli il 15 aprile scorso, all’Istituto degli Studi Filosofici per presentare la sua ultima fatica: “Donne che allattano cuccioli di lupo. Icone dell’ipermaternità”. Per l’editore Castelvecchio. 

 

La filosofa, appartenente allo storico movimento del femminismo della differenza sessuale, è stata accolta da un pubblico vasto di donne della sua e delle generazioni successive, e si è confronta con le filosofe napoletane Giovanna Borrello e Stefania Tarantino e con il gruppo napoletano di donne di Studi Femministi, fra cui Sandra Macci, Maria Celeste Zaccaria, Patrizia Melluso, Chiara Guida e Sara Faiello. 

 

Insieme a Stefania Tarantino che ne è l’animatrice, il gruppo, impegnato nella pratica del femminismo della differenza, si confronta attraverso incontri, dibattiti, letture collettive, concerti, cene ed eventi di convivialità, ispirandosi, per ammissione della stessa Stefania, alla tradizione e alla pratica dei gruppi storici delle femministe italiane. 

 

Il titolo del libro della Cavarero trae ispirazione direttamente dal contesto tragico della Grecia antica. È tratto da una citazione dalle Baccanti di Euripide. 

Nelle Baccanti si narra che le donne di Tebe invase da Dioniso, il dio che si presenta alla città come straniero e che nel ritirarsi sul monte Citerone esige che la sua divinità venga conosciuta e riconosciuta presso gli abitanti della città che non vogliono tributargli onori e favori. 

Perché questo avvenga il dio dell’ebbrezza oscura spinge le donne verso una sfrenata e incontrollata manifestazione della Zoè, la forza della natura che compulsa verso la generazione e rigenerazione della vita e ha, tra le altre caratteristiche, anche quella della nutrizione senza risparmio della madre nei confronti della prole. 

Superando, perciò, la barriera tra le specie, le donne tebane ritiratesi sul monte insieme al Dio, concedono dal loro seno il nutrimento a tutti i cuccioli che incontrano sul loro cammino, come orsi e lupi, per l’appunto, in un’orgiastica e sfrenata celebrazione della Zoè. 

 

La Cavarero, condensando bene il senso filosofico del testo in un iconico titolo, ha scelto, questa volta, di studiare la donna dal punto di vista dell’ipermaterno

Piuttosto che interrogare filosofe e filosofi, ha preferito privilegiare le narrazioni di alcune delle scrittrici più rappresentative del nostro tempo, quali la Ferrante o la Ernaux, accanto alle narrazioni tradizionali costruite dal mito così come si evidenziano nelle produzioni tragiche o letterarie del mondo antico. 

 

Mentre l’indagine filosofica è duttile e mobile nel suo intento di ricercare risposte, le immagini letterarie restano scolpite nella pagina per sempre. 

È questa la ragione per la quale l’autrice, filosofa, preferisce in questa sede, l’utilizzo di icone letterarie che mettano in risalto le strutture fondamentali dell’ipermaterno.  

La Zoè fonda il Bios. La Zoè è la forza generatrice della specie, al di qua e oltre qualunque processo di simbolizzazione proprio del Bios. 

È il tema costantemente rimosso dalla metafisica occidentale, pensiero elaborato dalla cultura maschile dominante. 

È la fisicità peculiare della femmina rispetto al maschio a essere rimossa da una cultura maschile che, non può, per ovvie ragioni, assumere il parto come la questione fondante di qualunque soggettivizzazione successiva. 

 

È attraverso il parto che si genera una vita singola e indipendente, nata da un’altra vita altrettanto singola e indipendente. 

La peculiarità fisiologica della donna è, innegabilmente, la differenza insuperabile rispetto al maschile. 

È la ragione per la quale le origini dell’umano vanno di necessità ritrovate e riconosciute nella biologia

 

Il parto, e il suo gemello diverso, l’aborto, esperienze traumatiche, per nulla “romantiche”, ma al contrario esperienze che non trovano forma nel concetto, che possono essere, in modo sofferto, richiamate nelle narrazioni potenti della letteratura al femminile, vengono indagate perfettamente dalla penna di Ernaux.  

 

L’ambivalenza della esperienza del parto giunge a considerare quel momento come presenza dell’orrido, dell’estremo punto di incontro-scontro tra attrazione e repulsione. 

È la base fisica, tangibile nella peculiarità fisiologica della donna, che va quindi posta come struttura fondamentale dell’originario. 

 

La biologia diventa la scienza di riferimento per un ulteriore approfondimento delle teorie femministe. Una scienza, la biologia che, per esplicita ammissione della Cavarero, è stata studiata sempre poco e male dal pensiero femminile. 

Ed è la domanda fondamentale che si pone la filosofa e cioè: come mai nel nostro tempo si faccia così fatica ad associare la donna e la sua peculiarità fisiologica alle evidenze della biologia?

 

La Biologia per la Cavarero, e lo dice esplicitamente nel libro, non è per nulla un territorio noto, nemmeno per lei lo era, ma quando si accorge che è ormai un punto di vista inevitabile, ammette di avervi dedicato tre anni di letture e di studi per coglierne appieno le prospettive epistemologiche e inserirle, quindi dentro, ma a pieno titolo, a quelle concettuali della filosofia femminista della differenza sessuale

 

Gli studi femministi, storicamente, hanno infatti sempre diffidato della biologia per una molteplicità di motivi: la donna, vista dal punto di vista biologico, sarebbe stata pensata soprattutto in rapporto al suo apparato riproduttivo e in funzione soltanto della capacità riproduttiva, trascurando perciò i processi di soggettivazione, con i connessi temi delle rivendicazioni proprie delle lotte femministe in fatto di liberazione sessuale e culturale. 

 

Ecco perchè una prospettiva culturale e politica che partisse dalla base biologica, è stata sempre almeno evitata, se non esplicitamente condannata dagli studi femministi. 

Di contro, la Cavarero, afferma che, soprattutto nel nostro tempo, una prospettiva teorica, che parta dalla base biologica della differenza sessuale, non può più essere messa da parte o data per scontata. 

 

La ragione è evidente: perché questa omissione può portare al risultato che si giunga addirittura a negare la differenza sessuale. Infatti, nelle pratiche della fluidità e dell’inclusività, prospettive gnoseologiche dei nostri tempi, viene esplicitamente negata l’identità differente della donna. Con il risultato, paradossale, di isolare e marginalizzare il femminile, che è ciò che è stato sempre fatto in tutti i tempi. 

 

Una decodificazione aberrante che, partendo dal proposito di valorizzare al massimo la differenza, annullandola di fatto, la perde nelle sue effettive potenzialità rivoluzionarie. 

Del resto, è ciò che accade nel mito di Niobe che viene condannata alla morte della sua prole e alla pietrificazione di se stessa. 

Latona con la complicità dei suoi figli divini, Apollo e Diana, la condannano perché peccatrice di iubris. 

Niobe pecca soltanto di parresia perché osa considerarsi divina in quanto generatrice. 

 

È lei che creando 14 vite singolari, si autoproclama fondatrice di ogni generazione, proprio nella sua differenza sessuale. È Niobe, che diversa dal maschile, esalta e valorizza il suo essere differente, nient’affatto sedotta dall’aspirazione a essere neutramente fluida, anzi orgogliosamente ribelle, nella sua autoaffermazione di essere donna e madre. 

 

Adriana Cavarero fa di Niobe il vero antefatto, la donna biologicamente capace di partorire e orgogliosa di esserlo. Tutto risolto? Tutto facile? Nient’affatto. 

La luce della forza generatrice resta inseparabile dall’ombra di quell’esperienza estrema dell’effettiva vissutezza del parto, orrido e tremendo che, soltanto la grande letteratura femminile riesce a tradurre in immagini efficaci. 

Quelle sensazioni inesprimibili e indicibili, quegli odori, quei sapori, quella materia sanguinolenta, i dolori, l’angoscia dell’attesa, che accompagnano inevitabilmente l’esperienza del generare. 

Ripartiamo da qui e riflettiamo.