Dopo la Legge 180, accompagnare la Salute Mentale al di là della legge?!

Dopo la Legge 180, accompagnare la Salute Mentale al di là della legge?!

di Emilia Cece

 

Oggi, visto che la segregazione è stata riorganizzata, quasi resettata dai nuovi manuali diagnostici, mentre si apre all’epoca di una complessità improntata alla nuova tolleranza, visto che il farmaco è entrato nell’uso quotidiano per la normale amministrazione delle devianze, visto anche che al soggetto etico s’è sostituito il soggetto del diritto, cosa farne della Legge 180?

La tolleranza della diversità si è formalmente e anche culturalmente affermata nelle scuole, negli ambiti della formazione come negli ambienti artistici, genericamente potremmo dire anche in ogni luogo di convivenza. Ma proprio questa tolleranza subisce molteplici fluttuazioni e scivolamenti, vacilla di fronte alla crescente marginalità sociale, di fronte alle nuove sessualità, alle migrazioni, alla devianza nella sua deriva di pericolosità sociale.

Si tratta dei punti deboli e conflittuali della nuova globalizzazione, quelli che richiamano la norma e l’efficienza come controllo appunto, controllo sulla devianza più che della devianza: repressione più che prevenzione. Devianza sociale e marginalità, aggiunti alle nuove logiche del consumo, alle dipendenze e alle doppie diagnosi, diventano così il nome del disaggio attuale del soggetto della modernità.

La conseguenza più evidente, che emerge nelle attuali statistiche, è quella secondo cui la malattia mentale così detta “strutturale”, che un tempo veniva definita come “follia”, è rappresentata oggi solo nel 18% delle statistiche di quanti si rivolgono ai servizi pubblici; a questa si aggiunge la categoria delle depressioni che è in crescita dagli anni ’60, e il 70% del disagio mentale che viene poi rappresentato come disagio della diversità al quale l’umanità, per gran parte, trova soluzioni singolari nell’automedicazione, nelle pratiche magiche e le tecniche di rilassamento, in nuove segregazioni di piccoli gruppi o club d’etichetta, fino a, last but not least, una dannosa e inappropriata prassi di “addiction”.

Su questo 18%, con la Legge 180, abbiamo speso tante, moltissime risorse ed energie, ma il tentativo di incidere con una rivoluzione culturale sulla comunità è il risultato più fragile, e in gran parte inadeguatamente raggiunto.

Risultato, questo, che apre la via di ritorno a comportamenti di diffidenza nei confronti del sistema Sanitario nazionale, rinnovati e rispolverati ancor più dopo l’ondata Covid.

Il sistema di risposta alla domanda di salute è così interamente regredito, si presenta in frantumi, e in definitiva vi si registrano grandi difficoltà, sia nelle politiche organizzative, che nel rappresentare esperienze innovative. 

Le condizioni di vita degli “ospiti” delle comunità della Salute Mentale sono oggi segnate da una evidente esclusione ed emarginazione sociale, tali unità di assistenza, case-famiglia o comunità che dir si voglia, strutture residenziali intermedie, dimostrano di avere costi altissimi, usufruiscono di appalti e talvolta anche di sub-appalti, con un notevole aumento dei costi, tra l’altro non sempre rispondenti a un miglioramento della qualità delle prestazioni.

Questo aspetto economico e strutturale, non solo è risultato dalla 180 stessa, ma per diverse ragioni, è da ricondurre alle conseguenze di una libera scelta, causa della devianza stessa, che lascia esprimere la follia esclusivamente in una zona estratta dal tutto, esclusa, protetta ma anche ancora una volta solo marginale. 

Certamente è la follia stessa che cerca l’isolamento, che si esprime nell’essere fuori dei codici, che si colloca, per definizione, fuori da ogni scambio sociale, fuori dai giochi relazionali, fuori dalla produzione, ma sino a oggi l’istituzione ha risposto in perfetta simmetria e in evidente simmetria con questa tendenza.

Il folle, abbiamo capito che innanzitutto ha un suo modo di essere un estraneo e un isolato, uno che pone in evidenza anche attraverso i così detti “sintomi negativi” proprio l’aspetto più profondo dell’essere che si realizza nel suo progressivo impoverimento, nello stare solo e fuori dal linguaggio comune,  nel ritrovarsi solo dietro una maschera di anonimato, in un vuoto di cui vediamo solo l’espressione più superficiale nello sguardo perduto dei senza dimora. 

Proviamo a recuperare tra queste evidenze ciò che abbiamo imparato dunque in questi anni: abbiamo imparato che, nonostante questa scelta, la follia può trovare una sua stabilità in una comunità integrata a condizione che sia sufficientemente piccola e regolata, rispettosa di queste esigenze speciali e proprio a partire dal riconoscimento di queste specificità, abbiamo imparato che ogni folle propone costruzioni, inventa progetti, costruisce miti, con i quali le famiglie e la società tutta, anche se non riescono nell’operazione di condivisione, possono fungere da aiuto, da punto di appoggio o come supporto, per non esporre nessuno al rischio di catastrofiche ricadute, di nuove regressioni.

Abbiamo imparato che il lavoro per la salute mentale deve far leva sulle risorse del piccolo gruppo, sulla capacità di ogni nucleo di seguire, sostenere, supportare, il lavoro singolare di ricucitura del legame di tolleranza, tessendo una rete simbolica con un lavoro costante e faticoso, che è utopico pensare che la soluzione sia in relazione ai “luoghi” perché appunto si tratta di ricucire una trama simbolica, un racconto inclusivo e non un luogo di raccolta, non un recinto.

Ogni famiglia, che abbia fatto i conti con questo tipo di disagio, sa che stabilire un buon rapporto su cui fondare solide basi di convivenza è farsi parte di questo lavoro di costruzione della trama attraverso piccole abitudini, riconoscimenti e valori, che ognuno nella propria singolarità può rappresentare per l’Altro. 

Abbiamo imparato, nella pratica con la follia, che mettersi in posizione di ascolto, è l’unico mezzo per comprendere questi nuovi e originali linguaggi, utili per la restituzione di quel riconoscimento che aiuta a far parola anche nel momento estremo allorché invece la follia spinge verso il passaggio all’atto, per aprire un percorso che scorre intorno ai punti di snodo di una traccia come una strada che contribuisce a raggiungere un altro paese, per far crescere la cultura dell’integrazione e gli scambi.

Si tratta di un lavoro complesso che deve essere ben retribuito, ma anche insegnato, accettato, generalizzato, dai luoghi di cura alle famiglie, alle scuole, nei luoghi della cultura e del lavoro, tra le istanze politiche, nelle case come nei quartieri. 

Un lavoro che richiede diverse figure professionali qualificate, che produce accettazione e curiosità verso altri punti di vista, altre percezioni, che punta per esempio a provare ad arrivare e a intendere ciò che l’altro ha sentito fin nella sua più intima allucinazione, in quella voce interna che parla a ogni-uno e si presenta ai più come unico partner nella vita frettolosa del non-senso contemporaneo.

A cosa dobbiamo puntare, di conseguenza, nel costruire oggi un’assistenza capillare e poter convivere con questo non-senso? Forse al potenziamento di una cultura dell’ascolto e della tolleranza, rispettosa delle differenze e del limite che ogni codice assoluto incontra. 

Si dovrebbe puntare, però, anche all’aiuto e al soccorso tempestivo, elastico, duttile, proteso all’ascolto, diretto fin nel domicilio, si potrebbe puntare a una migliore accoglienza perfino nel momento della crisi, ma anche alla costruzione di una rete che raccolga ogni capacità espressiva, che costruisca arte, singolarità, informazione, che inventi linguaggi e costruisca legami sociali, a partire non tanto dall’esigenza della produzione di mercato che produce solo perdita e impoverisce tutti, quanto piuttosto all’esigenza di non essere soli, di essere accettati, di poter godere della fiducia e della sufficiente autonomia delle risorse minime garantite a tutti.

La riforma della Legge richiede la riflessione etica sulla singolarità, su cosa può significare ancora essere uomini, o donne, o chissà cos’altro, di cosa si può insegnare ai propri figli se la guerra un giorno finirà, se il valore distingue o estingue.

In sintesi, dopo la legge 180, potremmo essere pronti a ricostruire la rete di sostegno per l’uscita dalla solitudine e dall’autismo epidemico che affligge l’umanità dell’epoca postmoderna, purché ci si faccia accompagnare verso il nuovo da ciò che abbiamo appreso dai folli.