La necessità di una norma sul fine vita

La necessità di una norma sul fine vita

di Luca Lo Sapio

 

I cosiddetti casi paradigmatici hanno sempre avuto un’enorme importanza in bioetica. Nancy Cruzan, Terry Schiavo, Eluana Englaro, Piergiorgio Welby non sono soltanto nomi di uomini e donne protagonisti di vicende che hanno suscitato molto clamore sugli organi di stampa, ma punto di avvio di nuovi percorsi di riflessione che hanno, in alcuni casi, determinato trasformazioni sociali profonde e fornito il materiale per il riconoscimento di nuovi diritti civili. 

Nel 2017 è stato il turno di Fabiano Antoniani, in arte DJ Fabo. 

DJ Fabo era un giovane musicista divenuto tetraplegico a seguito di un incidente automobilistico. Impossibilitato ad avere una vita degna di essere vissuta, DJ Fabo si informa sulla pratica del suicidio medicalmente assistito in Svizzera e dopo aver preso contatto con l’Associazione Luca Coscioni, un’organizzazione che da anni si batte per il riconoscimento del diritto alla buona morte in Italia, è stato accompagnato da Marco Cappato, sua madre e la sua compagna in una clinica elvetica dove il 27 febbraio 2017, azionando con la bocca un dispositivo che rilasciava un farmaco letale si è dato la morte. 

Da lì, una lunga vicenda giudiziaria che, dopo varie tappe che sarebbe qui troppo lungo riassumere, si è conclusa nel 2019 con la sentenza 242 della Corte Costituzionale che ha riconosciuto l’incostituzionalità di quella parte dell’articolo 580 del codice penale che punisce, equiparandolo all’istigazione al suicidio, i soggetti che forniscono il proprio aiuto alla realizzazione del suicidio di individui che nel pieno possesso delle proprie facoltà mentali e correttamente informati, ne fanno richiesta. 

Qualcuno ha indicato la decisione della Suprema Corte italiana come il primo passo verso la depenalizzazione del suicidio medicalmente assistito nel nostro Paese e come uno strumento giuridico fondamentale per la difesa dei diritti dei cittadini. 

Non c’è dubbio che lo sia, da un lato. 

Questo però non deve esimerci dal formulare due considerazioni: 1) una sentenza relativa a un caso specifico non può aspirare al livello di generalità che solo una norma ad hoc può garantire; 2) in un sistema di Civil law come il nostro i precedenti giuridici costituiscono una fonte importante per deliberare su casi analoghi, ma non rappresentano, soprattutto in assenza di norme specifiche, uno strumento risolutivo. 

A dimostrazione di ciò, va ricordato che dopo la sentenza 242 sono state diverse le richieste nel nostro paese di accedere al suicidio medicalmente assistito. Tuttavia, solo in alcuni casi, la sentenza è stata sufficiente a esaudire i desiderata dei pazienti. 

Le vicende di Alice Fumis e Martina Oppelli sono a tal proposito esemplificative. Alice è stata la prima a ottenere dal SSN il farmaco letale che si è poi autosomministrata a casa. Diversamente, Martina affetta da sclerosi multipla e convinta di non voler più proseguire la propria esistenza si è vista negare, almeno fino a oggi, una richiesta simile. 

Poter mettere fine alla propria vita dovrebbe essere parte del diritto che ciascuno di noi ha a veder realizzato ciò che ritiene essere coerente con la propria biografia. Eppure, l’Italia al momento non sembra pronta a compiere questo passo di civiltà e dotare i propri cittadini di una norma che regolamenti le decisioni di fine vita, eutanasia e suicidio assistito. 

La speranza è che nei prossimi anni, le spinte provenienti dalla società civile, dall’associazionismo e dall’esempio virtuoso di altri paesi che si sono dotati di norme in materia, possano dare uno scossone all’inerzia normativa che fino a ora ha impedito di introdurre una norma che consenta ai cittadini italiani di morire sulla base dei valori scelti per la strutturazione della propria vita.