“Berlinguer. La grande ambizione”, sa solo quello che non è.
di Roberta Baiano
Per dare subito un’idea del tono di questo articolo, vi dico che sono uscita dalla sala di un piccolo cinema di Roma con lo stesso senso di insoddisfazione e amarezza che avevo provato anni fa, uscendo dalla sala di un piccolo cinema di Napoli dopo aver visto Hammamet.
Anche questa volta, infatti, il film non riesce a raccontare appieno l’essere umano, non coglie davvero lo statista, non restituisce la complessità della Storia e, peggio ancora, lascia incompiuto il pensiero politico che ne ha guidato le azioni.
Non mi aspettavo certo un’agiografia: per quella possiamo guardare alle opere che hanno avuto come protagonista Aldo Moro, avvolto quasi inevitabilmente da un’aura sacrale a causa della tragica fine che ha segnato la sua vita e la sua memoria.
Da un film su Berlinguer, mi sarei aspettata qualcosa di più profondo, qualcosa all’altezza del personaggio e del periodo storico che ha attraversato.
Qualcosa di molto diverso: un racconto più incisivo, un’indagine profonda e ben calibrata che sapesse restituirne la complessità.
Quella di un uomo, di un leader, di un’epoca.
Berlinguer è stato una figura fondamentale della storia italiana, il cui operato, come una goccia in un lago, ha generato eco che si sono propagate ben oltre la sua epoca.
Era un politico lungimirante, coraggioso, rigoroso, dotato di una statura morale e istituzionale oggi rarissima, se non del tutto scomparsa.
Andrea Segre, scegliendo un soggetto così imponente e complesso per il suo film, ha senza dubbio intrapreso un’impresa titanica, direi ben oltre le sue capacità.
Lungo il cammino, infatti, sembra perdersi, dimenticando proprio lui l’ambizione e finendo per produrre un’opera del tutto inadeguata.
Questo film, invece di restituire la statura di Berlinguer, si riduce a un racconto timido, frammentario, superficiale, incapace di emozionare o di offrire spunti di riflessione.
Un film come questo dovrebbe affrontare le complessità del contesto storico e politico in cui Berlinguer si è mosso, eppure finisce per tralasciare elementi fondamentali.
Non racconta, ad esempio, le tensioni interne al PCI, come l’opposizione della sinistra radicale al compromesso storico, le cui riunioni di direzione nazionale sembrano sicuramente più pacifiche di un pranzo domenicale a casa mia, né approfondisce le politiche di austerità, sostenute anche dal Partito.
Non racconta nemmeno di come questo inciderà anche sul suo consenso in termini di voti.
Un film che riduce tutto a una narrazione semplicistica, quasi manichea: buoni contro cattivi. Una lettura tanto banale della politica, quanto ingiusta, che volutamente ignora le intricate dinamiche e le difficoltà di navigare in un’epoca complessa.
E poi ci sono i momenti storici cruciali.
L’attentato a Sofia? Appena accennato.
Il rapimento e l’uccisione di Moro? Sfiorati, senza approfondimento.
L’eurocomunismo, la via democratica al socialismo, il compromesso storico? Trattati in modo superficiale e frettoloso.
La questione morale, che pure rappresenta uno dei lasciti più significativi di Berlinguer, viene completamente ignorata.
Un film che sfiora leggermente l’umano, esagera la sua figura di padre e marito e all’altare di questo sacrifica la narrazione del leader politico.
In sintesi, si tratta di un film non solo modesto, ma anche scadente, che non riesce a raccontare davvero l’uomo, non riesce a raccontare davvero la famiglia, non riesce a raccontare davvero lo statista e la portata enorme del suo pensiero politico.
La complessità di Berlinguer e del suo tempo rimangono lontane, e il risultato finale non fa giustizia a una figura che avrebbe meritato decisamente di più.