
di Dionigi Zizza
A volte i film non hanno un’idea precisa e nel tentativo di centrare un bersaglio le provano tutte.
Partono da un punto ma danno l’impressione di non sapere quale sia la fine; ed ecco il proliferare di più trame, più archi narrativi, più volti di uno stesso personaggio che però non risulta sfaccettato ma solo confuso.
Parthenope (2024) di Paolo Sorrentino è – un tentativo di – omaggio a Napoli che pretende moltissimo da sé stesso.
Forse è proprio per questo che si estende per oltre due ore abbondanti e finisce per smarrire il fulcro: essere un film.
La trama segue una bellissima ragazza napoletana, Parthenope, che porta il nome della sua città e dovrebbe raccontarne i vari volti mentre la sua vita scorre sullo schermo.
Il periodo temporale attraversa i decenni che portano Napoli dal periodo post Achille Lauro fino ai giorni nostri.
Ma si sa… Napoli è una città complessa e, per quanto lo sia anche la vita, tentare di racchiuderla in un unico personaggio attraverso allegorie di ogni tipo è un’impresa impossibile.
Un po’ come cercare di mettere il mare in un secchiello.
Il film affronta temi enormi – suicidio, noia, amore, convenzioni sociali, il tempo inesorabile, il miracolo, il mito, l’incomunicabilità – tutti insieme, come se bastasse accumularli per dare profondità.
Eppure, a volte servono interi film per esplorarne solo uno. Si pensi a La Notte di Michelangelo Antonioni o alla trilogia del silenzio di Dio di Ingmar Bergman per il tema dell’incomunicabilità.
Il film inizia con Parthenope alle prese con i primi esami universitari e la sua vita in una villa sul mare. Ragazza agiata e dedita alla lettura, cerca qualcosa per sfuggire alla noia.
Inizialmente ha il tratto di una poetessa maledetta, ma i dialoghi, spesso ridondanti e frammentati, sembrano usciti da un bigliettino dei Baci Perugina.
Si possono individuare tre grandi archi narrativi: il primo, ambientato a Capri, introduce il trauma che destabilizza Parthenope e la porta a interrogarsi sul senso delle cose e dell’amore; il secondo, a Napoli, la trasforma in una sorta di incarnazione forzata della città; il terzo, nella maturità, si concentra sul mondo universitario e sul rapporto con il professor Marotta, con scene tra sacro e profano.
L’arco caprese è il meno ispirato.
L’adolescente Parthenope è vanitosa e priva di profondità, e i dialoghi sembrano voler riempire quel vuoto con frasi ad effetto.
Ma quando un film si concentra troppo su ciò che un personaggio dice, lo spettatore impara come il regista vorrebbe che fosse, non come realmente appare sullo schermo.
Prendiamo, ad esempio, Notorious (1946) di Hitchcock: in venti secondi, solo con un’inquadratura e qualche frase dei giornalisti, capiamo il tormento di Alicia Hubermann, senza bisogno di spiegazioni.
Il cinema è immagine, e quando si dice troppo, si rovina la magia.
Tornando a Parthenope, per fare un confronto, basti pensare alla scena virale del dialogo tra l’ex capitano di nave e la protagonista.
Il capitano le chiede se, con quarant’anni di meno, lo sposerebbe, e Parthenope ribatte: “Capitano, la domanda è un’altra: se avessi quarant’anni di più, voi mi sposereste?”
Il problema non è la battuta in sé, ma l’enfasi esasperata che la priva di naturalezza e della brillantezza che avrebbe avuto con un ritmo più rapido.
Il film non riesce mai a far sì che la macchina da presa “cada per caso” su Parthenope.
Tutto è studiato al millimetro, e questa artificiosità si riflette anche nella ricostruzione della Napoli anni ’80, che finisce per sembrare un riflesso sbiadito, comprensibile solo a chi quegli anni li ha vissuti davvero. Un errore pericoloso per un’opera che dovrebbe parlare a tutti, senza bisogno di esperienza diretta. Non serve essere stati partigiani per cogliere la potenza emotiva di C’eravamo tanto amati (1974) di Ettore Scola e il modo in cui i protagonisti, sognatori idealisti, finiscono per essere cambiati dal mondo che volevano cambiare.
Nel primo arco narrativo, Parthenope assume i tratti della femme fatale per il fratello, lo scrittore, l’amico e persino uno sconosciuto, la cui esistenza nel film resta inspiegabile. Le scene di ballo, le inquadrature sul mare, i dialoghi sono esasperati e pretenziosi, tanto che lo spettatore finisce per lasciarli scorrere senza più sentirli davvero.
Lo stesso vale per il primo incontro tra Parthenope e il professor Marotta, dove l’ironia si perde e la protagonista risulta perfino antipatica, anche quando dovrebbe brillare.
Raimondo, fratello di lei, è scritto meglio proprio perché non ha il peso dell’intera Napoli sulle spalle.
Pur non essendo particolarmente innovativo o sorprendente nella sua scrittura, almeno ha una costruzione narrativa coerente: il suo arco è chiaro, ha delle tematiche definite (noia, incomunicabilità, suicidio) e la sua presenza nel film ha un senso preciso.
Tuttavia, la sua caratterizzazione è eccessivamente prevedibile.
Le continue scene in cui dondola su un trampolino, una barca o un balcone con la sigaretta in bocca lo marchiano fin da subito come destinato a un tragico destino, privando la storia di qualsiasi sorpresa.
I personaggi secondari funzionano meglio. L’ex capitano, il sacerdote Tesorone e il professor Marotta incarnano l’anima pop che ha reso grandi i film di Sorrentino, con un picco in Il Divo (2008).
Ma quando un personaggio secondario diventa funzionale allo sviluppo emotivo di Parthenope, emergono i limiti della sceneggiatura.
Un esempio?
L’incontro con il poeta John Cheever (Gary Oldman) si riduce a una sequenza di frasi romantiche nichiliste, senza un vero senso narrativo; senza contare che anche lui entra ed esce dal film e dalla trama come niente fosse.
Nel secondo arco, quello napoletano, il film si perde ancora di più. Parthenope diventa allieva di una vecchia diva dal viso coperto, un personaggio grottesco che, per quanto interessante, non influisce sulla trama. La scena del bacio nella doccia tra le due sembra più un tentativo di dare una scossa pop al film che un momento realmente significativo.
Dopo l’incontro con Greta Cool, ex diva del cinema tornata a Napoli per un premio, Parthenope passa una notte con un affascinante sconosciuto, che si rivela essere l’allegoria della camorra. Ma a quel punto, lo spettatore ha già perso ogni connessione con lei. Chi è Parthenope? Il film cerca di rispondere solo nel finale, recuperando il rapporto con il professor Marotta, che finalmente le dà una forma, seppur incoerente con tutto ciò che abbiamo visto prima.
Una nota di merito va ai venti minuti finali con Tesorone, unico tra i personaggi secondari, insieme al professor Marotta, ad avere un legame concreto con gli obiettivi di Parthenope e quindi con la trama stessa. Sorrentino lo riprende con grande maestria, valorizzando l’interpretazione sbizzarrita di Lanzetta.
Tesorone sembra quasi “cadere per caso” nel film, senza il peso di dover introdurre scene specifiche (come invece accade con la maestra, Greta Cool o l’incontro con il camorrista), e proprio per questo risulta naturale, lasciando trasparire un’ironia autentica.
Riesce a essere simpatico e, soprattutto, a dare quella nota pop che Sorrentino cerca per tutto il film ma trova solo nella scena tra sacro e profano, ambientata tra i tesori di San Gennaro, dove Tesorone è protagonista.
Dal punto di vista tecnico, la fotografia di Daria D’Antonio è una vera carezza al cuore.
Le immagini di Napoli, avvolte nei colori caldi di un ricordo intimo e nostalgico, aiutano lo spettatore a immergersi nella vita di Parthenope, a sentirne l’atmosfera familiare ed emotiva, nonostante le difficoltà della narrazione.
La palette cromatica, soprattutto nelle fasi iniziali, è essenziale ma ricca di sfumature, con un predominio di blu e bianco che dona grande risalto alle scene sul mare, sia a Capri che a Napoli.
Anche il montaggio di Cristiano Trovaglioli è ben realizzato: gli stacchi, le scene a rallentatore e i dettagli che conferiscono un’aura onirica sono collocati nei punti giusti, offrendo in alcuni momenti un’illusione di continuità che altrimenti il film non avrebbe.
Interessante il montaggio di Raimondo, che appare e scompare tra le tende, evocando vagamente la scena del baldacchino in Rebecca, la prima moglie.
Le musiche, come da tradizione nei film di Sorrentino, sono ben scelte e accompagnano efficacemente le scene, aggiungendo spessore emotivo dove la sceneggiatura non sempre riesce a farlo.
In conclusione, Parthenope è un film che non si dimentica, ma non è nemmeno un film bello, godibile o rivedibile.
A salvarlo sono solo alcuni elementi: la fotografia, il montaggio, la regia sempre solida di Sorrentino e le interpretazioni degli attori, che riescono a dare dignità a una sceneggiatura complessa e piena di insidie.
Se il film si fosse concentrato su una sola tematica – o almeno su poche, ma ben intrecciate – staremmo parlando di tutt’altra opera.
Sorrentino ha voluto che Parthenope fosse Napoli, invece di lasciarla semplicemente essere napoletana.
Per chi volesse un’alternativa, si consiglia la visione di Viaggio in Italia (1954) di Roberto Rossellini, un omaggio meraviglioso alla città, capace di raccontarne pregi e difetti con una profondità autenticamente umana.
Le tematiche della noia, dell’incomunicabilità e della solitudine, presenti anche in Parthenope, sono qui intrecciate nella storia di una coppia inglese della upper middle class, che trova in Napoli l’epifania per ritrovarsi.
Un ottimo spunto per chi voglia confrontare Parthenope con un’opera che, invece, sa dare alla vaghezza una forma narrativa solida e coinvolgente.
Voto: 5.