Napoli, il Monaciello e Anna Maria Ortese: un viaggio tra mistero e scrittura

image_pdfimage_print

Napoli, il Monaciello e Anna Maria Ortese: un viaggio tra mistero e scrittura

 

di Roberta Baiano

 

Quest’anno ho fatto un voto a me stessa, poco silenzioso: lasciarmi trasportare dalla magia dei libri editi da Adelphi.

E quale modo migliore per iniziare, se non con un volume che aspettava paziente nella mia libreria il suo momento?

Essì, perché si sa, i libri hanno tanto un’anima, quanto un tempo preciso in cui ci chiamano, e questo è accaduto con “Il Monaciello di Napoli” di Anna Maria Ortese, una raccolta di racconti che porta con sé il profumo della nostalgia e il mistero di storie appena sussurrate.

 

Il primo dei racconti, è anche quello che da il titolo al libro, ed è stato lui a toccarmi particolarmente e a suggerirmi questo articolo con la sua dolce malinconia.

 

Scritto nel 1940, il Monaciello porta con sé una dolcezza sommessa, intrecciata a una sottile vena di ribellione e racconta la storia di un giovane monaciello, il cui rifugio è un vecchio armadio, con la serratura difettosa e le ante malandate, un po’ diverso dagli altri. 

Caro, imprevedibile, capace tanto di slanci di dolcezza, quanto di scatti di ira improvvisi, è un’anima irrequieta, sensibile, poetica.

Nel suo oscillare tra gioco e malinconia, sa incarnare quello spirito duplice che caratterizza la città di Napoli stessa.

Antica e moderna, luminosa e ombrosa, concreta e magica allo stesso tempo. 

 

Napoli, una città decisamente piena di contrasti e duplicità, sospesa tra luce e ombra, bellezza e decadenza, realtà e superstizione. 

Ogni suo vicolo ha una storia da raccontare, ogni suo angolo nasconde un segreto.

È il luogo per eccellenza dove il passato convive con il presente e il confine tra il tangibile e l’invisibile si fa così sottile da sembrare quasi impercettibile; dove il mistero non è un’eccezione, ma una parte integrante della vita quotidiana.

 

Napoli custodisce i suoi segreti in modo da aver permesso ai suoi racconti di sfidare i secoli, proprio come il caso del Monaciello.

 

Qualunque napoletano, anche il meno superstizioso, anche il più pragmatico, può raccontarvi di aver provato almeno una volta una sensazione difficile da spiegare, un brivido improvviso, un suono appena accennato, l’impressione di una presenza che l’ha sfiorato.

 

Probabilmente, proprio lui.

Questa figura altrettanto in bilico, che nessuno sa con certezza chi sia, ma che tutti conoscono.

Un’ombra sfuggente capace di lasciare dietro di sé monete d’oro o di far sparire oggetti.

Uno spirito che appartiene alla città tanto quanto le sue strade e i suoi palazzi.

 

La sua radice è avvolta nel mistero, proprio come la sua natura. 

Alcuni racconti la fanno risalire al Quattrocento, legandolo alla tragica storia di Caterinella e Stefano, due amanti divisi dalla sorte. 

Lei di famiglia benestante; lui, di umili origini. 

Un amore contrastato, un figlio nato nell’ombra, un bambino dimenticato.

 

Un’altra ipotesi riconduce la sua figura ai pozzari, gli antichi manutentori delle cisterne e dei cunicoli sotterranei di Napoli. 

Uomini che conoscevano la città nelle sue profondità più buie, che quando non pagati per i loro servizi, sapevano come rifarsi da soli, appropriandosi di ciò che ritenevano spettasse loro di diritto. 

 

C’è poi chi lo considera un’entità soprannaturale, qualcosa di ben più inquietante. 

Un demone, dicono alcuni, un essere capriccioso che dispensa fortuna o sventura a suo piacimento, che protegge o tormenta, aiuta o inganna.

 

Eppure, su un punto tutti concordano: il Monaciello ha un aspetto preciso.

È un omino di piccola statura, avvolto da un saio di monaco con un cappuccio che non è un semplice dettaglio, ma un segno di ciò che porterà con sé.

Se è rosso, si può sperare in un dono, in un evento favorevole, in un presagio di fortuna.

Ma se il cappuccio è nero, beh, allora il destino potrebbe prendere una piega ben diversa.

 

Ad ogni modo, c’è chi lo teme e chi invece lo invoca, chi si guarda bene dal pronunciare il suo nome e chi spera di incrociare la sua strada.

Per alcuni è un’ombra ingannevole, per altri un guardiano silenzioso che, se trattato con rispetto può condurre a ricchezze dimenticate.

 

Dunque, chi è davvero il Monaciello?

Un’anima inquieta legata a un passato tragico o un antico spirito a cui piace giocare con il destino degli uomini?

Forse entrambe le cose, forse è destinato a rimanere un enigma, proprio come Napoli, la città che pare tutt’ora lo ospiti.

Di certo il suo nome continua a risuonare.

 

Io ho avuto modo di rincontrarlo grazie ad Anna Maria Ortese, una viaggiatrice della parola, capace di trasformare in scrittura il riflesso del suo sguardo. 

La sua è stata un’esistenza segnata dall’irrequietezza, dal bisogno incessante di trovare un luogo che sapesse davvero come accoglierla, senza riserve.

E in Napoli ha trovato qualcosa di più di una semplice città.

Un incanto ambiguo, un legame viscerale fatto di amore e incomprensione.

 

Napoli l’ha rapita, come rapisce chiunque la attraversi, con il suo caos e la sua bellezza velata, con i volti di chi la abita, con il suo respiro bruciante, amaro e sincero. 

Una città che non si concede mai del tutto, che affascina e tormenta, lasciando chi la ama sospeso tra il desiderio di trattenerla e la certezza di non poterla mai possedere davvero.

 

Ortese ha saputo raccontarla come pochi altri.

Una scrittrice che meriterebbe di essere letta e riletta, di essere riscoperta con la stessa intensità con cui lei ha cercato di comprendere il mondo.

Sicuramente continuerò a leggere le sue opere. 

Spero che tu faccia altrettanto.