Una cosa divertente che non farò mai più – Il paradosso della scelta

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Una cosa divertente che non farò mai più – Il paradosso della scelta

di Roberta Baiano

 

Ci sono esperienze che, una volta vissute, ci lasciano con la certezza di non volerle ripetere. 

È il caso raccontato in Una cosa divertente che non farò mai più di David Foster Wallace, un libro nato da un reportage commissionato dalla rivista Harper’s su una crociera extralusso ai Caraibi, che dopo numerose revisioni si è trasformato in un classico dell’umorismo e una satira tagliente sul divertimento di massa. 

 

La traduzione italiana non è delle più fedeli: il titolo originale, A Supposedly Fun Thing I’ll Never Do Again, rendeva ancora meglio il senso del libro, che è tutt’altro che semplice; a conferma di ciò, il cuore pulsante dell’opera si trova nelle note, che occupano ben 137 delle 151 pagine. 

 

Il nostro narratore e compagno di viaggio è Wallace, semi-agorafobico, catapultato in un microcosmo di vizi, sorrisi, camicie hawaiane e lusso sfrenato. 

 

Fin dalle prime pagine emerge un senso di tristezza e disperazione: se la vacanza è intesa come una pausa dalle difficoltà della vita, allora la crociera e chi ce la propone andrebbero definitivamente banditi dai nostri pensieri. 

 

Da un lato, Wallace apprezza piccoli dettagli come la stanza sempre impeccabile e il mistero delle cameriere-fantasma; dall’altro, analizza la perfetta macchina del divertimento che governa la nave, evitando di farsi risucchiare nella massa di passeggeri. 

Essere serviti e riveriti senza dover pensare o scegliere sembra il sogno di molti, ma quando ti ritrovi intrappolato in mezzo al mare con un’agenda del tempo libero imposta dall’alto, inizi a comprendere il senso della frase di Aristotele secondo cui la natura ha paura del vuoto e lo riempie costantemente. 

 

Un passaggio del libro, che ho personalmente sottolineato, esprime bene questo concetto: 

 

Ogni giorno sono costretto a compiere una serie di scelte su cosa è bene o importante o divertente, e poi devo convivere con l’esclusione di tutte le altre possibilità che quelle scelte mi precludono. E comincio a capire che verrà un momento in cui le mie scelte si restringeranno e quindi le reclusioni si moltiplicheranno in maniera esponenziale finché arriverò a un qualche punto di qualche ramo di tutta la sontuosa complessità ramificata della vita in cui mi ritroverò rinchiuso e quasi incollato su di un unico sentiero e il tempo mi lancerà a tutta velocità attraverso vari stadi di immobilismo e atrofia e decadenza finché non sprofonderò per tre volte, tante battaglie per niente, trascinato dal tempo. È terribile. Ma dal momento che saranno proprio le mie scelte a immobilizzarmi, sembra inevitabile, se voglio diventare maturo, fare delle scelte, avere rimpianti per le scelte non fatte e cercare di convivere con esse.” 

 

Se per diventare maturi bisogna scegliere, la crociera si fonda sull’idea opposta: liberare il passeggero da ogni responsabilità e distrarlo da una realtà difficile. 

 

Wallace descrive i suoi compagni di viaggio come “caproni allo zoo”, bambini viziati che, seguendo la propaganda della nave, si trasformano in folla

E questa cede agli istinti che individui singoli avrebbero frenato, regredisce intellettualmente e si lascia sedurre dall’illusione. 

Buffet infiniti, teli sempre nuovi, sorrisi forzati del personale, scacchi, freccette, gare di bianchi bianchissimi tra le navi da crociera: tutto è finalizzato a creare una realtà parallela in cui non si avverte il peso della responsabilità. 

 

Wallace sembra salvarsi dalla trasformazione grazie alle sue ossessioni, alla sua semi-agorafobia e alla sua tendenza a rintanarsi nella cabina o a vagare alla ricerca delle cameriere-fantasma. 

 

Ma alla fine del libro si insinua un dubbio, un’atmosfera a metà tra il finale di Inception e quello di 1984: sarà davvero riuscito a mantenere il distacco? 

 

In questo libro emerge forte il tema del paradosso della scelta: se da un lato la libertà di decidere è fonte di ansia e frustrazione, dall’altro la sua assenza non porta alla serenità sperata, ma a un senso di vuoto ancora più grande. 

 

E allora, si è davvero più felici quando si è privati della possibilità di scegliere?