Concorso pubblico: un’avventura epica.
Concorso pubblico: un’avventura epica.
di Roberta Baiano
Un tempo, entrare in un ufficio pubblico significava assistere a un vero e proprio spettacolo di abilità circense: impiegati che digitavano cose con la solennità di un monaco amanuense, rigorosamente con l’indice e con una precisione tale da far impallidire anche un chirurgo.
Un colpo di tasto alla volta, una pausa riflessiva tra una lettera e l’altra, e via così, finché la parola “casa” non prendeva finalmente forma nel giro di un’oretta buona.
Ed è forse per questo che nella mia generazione il sogno di diventare dipendente pubblico è sempre stato avvolto da un’aura mistica.
Il posto fisso, quel miraggio che sa di stabilità e pensione sicura, continua a esercitare un fascino irresistibile.
E così, eccoci tutti a rincorrere il concorso perfetto, quel bando che potrebbe cambiare la nostra vita.
Peccato che superarlo sia diventato più difficile di un reality show ambientato in un’arena mortale: altro che curriculum, servono nervi d’acciaio e una resistenza degna di un ultramaratoneta.
La pubblica amministrazione ha disperatamente bisogno di nuove leve, eppure i meccanismi di selezione si fanno sempre più grotteschi.
I posti ci sono, dicono i numeri, ma ottenerli è una missione da film di spionaggio.
E, tra i requisiti richiesti e gli stipendi da fame, viene spontaneo chiedersi: ne vale davvero la pena?
Procediamo per punti.
I bandi: il copia-incolla immortale.
I concorsi pubblici sembrano usciti da una macchina del tempo inceppata.
Testi generati con il copia-incolla più longevo della storia, privi di una reale descrizione del lavoro da svolgere.
Si cerca un funzionario, sì, ma di cosa si dovrà occupare?
Mistero.
Un vago riferimento al tipo di contratto, qualche requisito scritto con la verve di un documento medievale, e il gioco è fatto.
Le tempistiche: tre anni per un posto (forse).
Pubblicato il bando, inizia il calvario.
La selezione può richiedere anche fino a tre anni.
Nel frattempo, puoi richiedere un mutuo e ottenerlo, mettere su famiglia o, più realisticamente, perdere le speranze.
Qualcuno, magari, è riuscito anche a sposarsi e a fare figli, un’impresa già di per sé titanica per la generazione Millennials.
Le prove: un percorso a ostacoli infinito.
Le prove di selezione somigliano più a un rito di iniziazione che a un esame di reclutamento. Iniziamo con la preselettiva: migliaia di candidati chiusi in hangar immensi, privati del cellulare e della luce naturale come se fossero in un esperimento sociologico o di tortura.
Dopo sei ore di sudore e speranze, i superstiti affrontano la prova scritta nelle stesse condizioni.
E infine, la prova orale: dopo mesi di attesa, il colloquio dura meno del tempo necessario a preparare un caffè, giusto il tempo di vedersi assegnare un voto deciso probabilmente in precedenza.
Ah, e prima della graduatoria finale?
Nessuno si preoccupa di fare un colloquio per conoscere i vincitori.
Dopo tutto, cosa vuoi che importi sapere chi lavorerà per lo Stato per i prossimi quarant’anni?
I programmi: enciclopedie per un quiz.
La parte più esilarante è sicuramente il programma di studio.
Per ogni concorso, una lista infinita di materie: diritto amministrativo, costituzionale, contabilità pubblica, diritto internazionale, inglese, informatica.
Non importa se poi dovrai rispondere a una manciata di domande su 1500 pagine di manuali.
A confronto, alla NASA richiedono meno preparazione per mandare un razzo nello spazio.
I requisiti: il grande paradosso.
E poi ci sono i criteri di selezione.
Se hai solo il diploma, puoi candidarti a un profilo.
Se hai una laurea, puoi candidarti a entrambi.
E già qui partiamo male.
Ma il vero colpo di scena arriva con la valutazione dei titoli: il laureato che si iscrive al concorso per diplomati ha un ulteriore vantaggio, perché al punteggio della prova si aggiunge il peso della sua laurea e magari di un master.
Risultato?
I laureati vincono sia i concorsi per laureati, sia quelli per diplomati.
I diplomati, invece, possono accomodarsi e iniziare a cercare un altro piano B o a richiedere l’ADI.
Non sarebbe più sensato limitare la possibilità d’iscrizione ai concorsi per diplomati per chi ha titoli superiori?
O quantomeno, evitare che una laurea diventi un bonus extra in una selezione dove non dovrebbe neanche esistere?
I concorsisti: l’eterna rincorsa al posto perfetto.
C’è poi la categoria dei “concorsisti“, quei professionisti del bando che vivono in una perenne sessione d’esame.
Ne preparano tre, quattro alla volta, e una volta vinto il primo, li superano tutti come se avessero scoperto un glitch nella realtà.
E non si fermano: anche dopo essere diventati dipendenti pubblici, continuano a tentare nuovi concorsi, saltando da un ente all’altro finché non trovano quello più vicino a casa.
Risultato?
Gli uffici restano sempre sguarniti, mentre la giostra continua a girare.
Una possibile soluzione?
Limitare la possibilità di iscriversi a più di due concorsi alla volta e impedire nuovi tentativi prima di aver prestato almeno cinque anni di servizio nello stesso ente.
E poi c’è la famigerata “Taglia Idonei”…
Un’idea così surreale che merita un articolo a parte, perché qui il nonsense raggiunge livelli inimmaginabili.
Insomma, se davvero l’obiettivo di questi concorsi è riempire i posti vacanti e garantire il diritto al lavoro, sarebbe il caso di renderli meno simili a un percorso a ostacoli e più equi per tutti.
Perché lo Stato si fonda sul lavoro, sì, ma anche sul buon senso.
E forse un pizzico di logica, che tra le altre cose rappresenta anche materia di preselettiva, non guasterebbe.