- Il Cimitero dei Tredici: Napoli e la geometria dell’eternità
di Roberta Baiano
A Napoli, la morte ha il suo posto fisso, preciso, pensato.
Ai piedi della collina di Poggioreale, tra il brusìo del traffico, sorge un luogo che pochi conoscono davvero, ma che racconta più di mille chiacchiere: è il Cimitero delle 366 Fosse, detto pure Cimitero dei Tredici.
Ci sono arrivata dopo anni di ricerche, seguendo tracce lente e polverose, finché finalmente ho trovato – e letto – un libro che cercavo da tempo: Cimiteri. Storie di rimpianti e di follie di Giuseppe Marcenaro.
Un testo splendido, che consiglio a chiunque dovesse mai imbattersi in una copia, e che regala riflessioni tanto affilate quanto dolorosamente vere.
Marcenaro scrive che i cimiteri, da non-luoghi per definizione, sono in realtà territori vitalissimi, dove si gioca la partita oscura tra memoria e follia.
Luoghi fisici e mentali in cui i morti, espulsi dalla vita e accantonati fuori dal consenso dei viventi, finiscono per raccontare più dei vivi stessi.
E proprio lì dentro, tra quelle pagine, ho incontrato per la prima volta la storia del cimitero delle 366 fosse, di recente posto a sequestro preventivo per il ritrovamento di loculi abusivi.
Un nome che già suona come una leggenda, ma qui non si parla di fantasmi: si parla di rispetto, di dignità, di quella cura tutta napoletana che non abbandona nemmeno chi non ha mai avuto nulla e non ha più nulla da dire.
Voluto da re Ferdinando IV di Borbone e costruito nel 1762 su progetto di Ferdinando Fuga – lo stesso che ha disegnato il Reale Albergo dei Poveri – questo cimitero è un esempio raro di rigore e compassione.
Foriero di quarant’anni le regole napoleoniche che volevano i morti sepolti fuori dalle mura cittadine, perché l’anima, anche quando se ne va, merita un po’ di spazio e silenzio.
Le fosse erano 366, una per ogni giorno dell’anno, compresi quelli bisestili, disposte in una griglia geometrica di 19 file per 19 righe.
Un ordine che sembrerebbe quasi esoterico, ma che in realtà era dettato esclusivamente da una profonda umanità: bastava sapere il giorno della morte di qualcuno per sapere esattamente dove trovarlo.
Ogni tomba era profonda sette metri, con una base quadrata di poco più di quattro.
Al centro passava una fossa di scolo per l’acqua piovana – perché pure i morti, a Napoli, non devono restare con i piedi a mollo.
La macchina funebre è ancora lì, come se aspettasse.
Un argano mobile, con una bara metallica dal fondo apribile: si calava la salma e via, pronta la sepoltura, tutto con la precisione di un rituale che si svolgeva solo dalle sei e mezza di sera alle sei e mezza del mattino.
In silenzio, senza cortei, ma con una discrezione che sa tanto di pudore, quanto di affetto.
Dall’archivio storico del Banco di Napoli emergono ancora oggi le tracce di questa impresa: i conti, i pagamenti, persino dei cancelli in metallo.
Tutto documentato.
Perché il dolore è una faccenda da trattare con ordine, rispetto e un certo senso del dovere.
Era una fossa comune, sì.
Ma non un abbandono.
Era un progetto, un sogno di civiltà in pieno Illuminismo napoletano.
Un modo per dare ai dimenticati almeno un giorno, il loro giorno, inciso su pietra.
Una fossa tra le tante, okay, ma tutta per loro.
I napoletani con la morte non ci hanno mai litigato.
Non l’hanno mai cacciata, né temuta.
L’hanno invece accolta, sistemata, e messa in ordine.
E ogni volta che passano davanti a quel cancello, ci buttano un occhio e un pensiero.
Perché a Napoli, pure la morte ha bisogno di sentirsi a casa.