Aleister è morto. O forse no. Firmato: Fernando.
Aleister è morto. O forse no. Firmato: Fernando.
di Roberto Baiano
“Ogni libro porta con sé un mondo di storie: non solo quelle scritte, ma anche quelle vissute.
Dietro ogni pagina ci sono immagini, ostacoli, follie e momenti di genio che rendono gli autori unici, strani e, in fondo, un po’ simili a noi.”
Ci sono legami che non si capiscono nemmeno mentre li si vive.
Appaiono così, dal nulla, come una rivelazione o una truffa ben architettata, e restano lì, sospesi tra l’assurdo e il sacro.
Due individui si incontrano, si annusano, e senza alcuna logica apparente decidono di affidarsi l’uno all’altro per attraversare il caos della vita.
Nulla di romantico, eppure c’è un’intimità.
È un patto non scritto, ma con clausole così precise da sembrare dettate da un’entità superiore – probabilmente ubriaca.
Non è amicizia.
Non è amore.
La chiamano bromance.
Vanity fair una volta ha anche pubblicato un articolo in cui riportava le cinque best scalda cuore.
Praticamente è quella versione maschile dell’inspiegabile, di Terry e Maggie; quella che si nasconde dietro battute di dubbio gusto e rituali imperscrutabili, tipo cose che vanno dallo scriversi lettere a mano, all’evocare entità metafisiche nel tempo libero.
Qualche volta, si incrocia anche con quei momenti in cui la realtà si piega come un sipario e lascia intravedere un’altra scena.
Più ambigua.
Più scura.
Più vera.
Tipo a Lisbona, nel 1930.
Tipo in stanze in penombra, in un appartamento pieno di libri, sigarette e presenze invisibili.
Quando noi – io, Fernando Pessoa – viviamo una vita in equilibrio tra la poesia e il delirio.
Scrittore? Sì.
Poeta, anche.
Medium accidentale.
Molto più spesso, condominio affollato.
Sono un contenitore di voci che non sempre mi chiedono il permesso per entrare.
Un’anima smontabile.
Frammentata in personaggi che scrivono per me, al posto mio, contro di me.
Alcuni non si sopportano nemmeno tra loro.
Io faccio da portinaio.
E proprio in giorni sospesi, segnati dal lutto per la morte di mamma e dalla compagnia fissa della depressione – o di chi per lei – accade l’impensabile.
Mi arriva una lettera.
Destinatario? Aleister Crowley.
Il mago nero per eccellenza.
L’occultista britannico appena bandito dall’Italia. In fuga da se stesso e dalle sue leggende.
Sarà furibondo.
Una data sbagliata.
Perché l’ho corretto?
Dannazione.
Almeno ho usato un tono garbato.
Preciso, sì, ma garbato.
Va bene, apro la busta.
“Ti ringrazio per la correzione. Arrivo presto. Vediamoci di persona.”
Momento, momento.
Cosa?
Quando ha detto che arriva?
Si presenta con una diciannovenne tedesca dallo sguardo vuoto e le calze bianche.
Non parla quasi mai, ma sembra sapere tutto.
È molto particolare.
Oppure solo molto annoiata.
Comunque, eccoci.
Io, il mago e la bambina stregata.
Che facciamo il bagno nell’oceano.
Che ingoiamo sostanze che alterano lo spazio e il tempo, oppure sono solo molto scadenti.
Ci cacciano da ristoranti, da hotel, da qualsiasi tipo di normalità.
Ma io mi sento stranamente bene.
O forse non sono io.
Poi lei se ne va.
Senza una parola.
Solo una valigia in mano.
Crowley, ferito nell’ego e forse nell’anima – ammesso ne abbia una – decide che è il momento di agire.
“Mi devo vendicare. Mettiamo in scena la mia morte?”, mi dice.
Lo guardo.
Più di quanto sia socialmente accettabile.
O forse no?
Dentro di me, Álvaro de Campos vota a favore.
Ricardo Reis si oppone con eleganza.
Bernardo Soares chiede se ci sarà da scrivere.
Dico solo: “Va bene”.
Per fare questa cosa ci serve un palcoscenico.
Lo troviamo: Boca do Inferno.
Nome perfetto.
Teatro naturale per un’uscita di scena da maestro.
Scriviamo insieme il messaggio d’addio.
Lo pieghiamo.
Lo infiliamo sotto un portasigarette d’argento con la cura di due maestri dell’illusione.
Poi chiamiamo un mio amico giornalista.
Sì, lo chiamiamo noi.
Altro che caso.
Gli diciamo dove e quando.
Lui fa il suo.
Trova il biglietto.
Lo legge.
Pubblica lo scoop: Aleister Crowley si è suicidato.
Sparito tra le onde.
Dissolto nell’Inferno.
La stampa impazzisce.
Scotland Yard manda un investigatore.
Vengo interrogato.
Il giornalista pure.
Traduco il messaggio con voce grave, da iniziato.
Fingo di capire.
In fondo, ho letto abbastanza teosofia da improvvisare con dignità.
Soprattutto con convinzione.
La polizia dice che Crowley ha passato il confine il 23.
Io dichiaro – con voce ferma – che l’ho rivisto il 24.
Due volte.
Una in carne e ossa.
L’altra… non ne sono sicuro.
Ma chi lo è mai?
E la ragazza?
Ve lo starete certamente chiedendo.
Niente.
Forse aveva capito che certi uomini non si uccidono.
Si duplicano.
Si trasfigurano, forse.
Cambiano abito e spariscono tra le pieghe del reale.
Fine.
Mesi dopo, un amico mi fa una domanda innocente.
E io, senza pensarci troppo, rispondo:
“È in Germania”.
Lo dico così.
En passant.
Come se non mi avesse lasciato qui.
Come se non mi avesse più scritto.
Come se non avessi sentito un piccolo crollo interno, silenzioso e ridicolo, ma reale.
Lo ritrovano lì.
Vivo. Intatto.
Con un’altra. Di nuovo.
Io, invece, rimango a Lisbona.
Con la sensazione che qualcosa sia cambiato.
Che qualcuno sia scomparso.
E che forse, l’unico a non essere mai più tornato… sia stato io.
Maghi, fantasmi, lettere, messinscene.
E un poeta che, per una volta, esce dal buio della sua stanza per aiutare un altro uomo, il suo bro, a scomparire.
Probabilmente, la cosa più estrema che abbia mai fatto.
E anche la più vera.
Perché, se sei Fernando Pessoa, non ti limiti a scrivere vite immaginarie.
Le vivi.
O le presti.
O le offri in pegno a chi ne ha bisogno.
E a volte, in mezzo a questo prestito di identità, a questa bromance esoterica che si muove tra incantesimi e psicosi, succede anche che ci si affezioni.
Che ci si creda.
E quando uno dei due sparisce davvero, l’altro resta lì.
Solo.
Con un po’ di malinconia, a tradurre il nulla.
Come Pessoa.
Come un vero maestro d’inchiostro.
E di illusioni.
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