Anatomia di un regime che non si dichiara e l’ora della scelta per i cittadini.
di Roberta Baiano
Aprile è passato, come ogni anno.
Si è ricordata la Resistenza, come ogni anno.
Ma a chi è rimasta davvero, quella parola?
A chi parla ancora, se ancora parla?
L’anno scorso, una voce — quella di Scurati — fu messa a tacere.
Quest’anno, si è fatto anche meglio proclamando immotivatamente – proprio in coincidenza con le celebrazioni – ben cinque giorni di lutto per la morte del Papa.
Un lutto stonato, servito troppo palesemente come silenziatore istituzionale.
Mentre intanto, nelle piazze, il saluto romano si alza libero, impunito, chi si dice antifascista viene identificato, schedato, ammonito.
Tutto alla luce del sole.
O meglio, nell’indifferenza della penombra.
In questo paese, la Resistenza viene presentata volutamente come una parola da museo.
E nel frattempo ha preso piede qualcosa di molto più subdolo, più pericoloso, più quotidiano: la desistenza.
Non la rivolta, ma il ritiro.
Non l’alternanza, ma l’adattamento.
Non il dissenso, ma la stanchezza.
La desistenza è un veleno lento.
È quella convinzione, sempre più diffusa, che nulla possa cambiare.
È una resa mascherata da realismo, una sottomissione travestita da pragmatismo.
È il modo in cui si spegne una democrazia senza che nessuno accenda l’allarme.
Non con la forza, ma con l’abitudine.
Si smette di lottare non perché si è vinti, ma perché si è svuotati.
Fiaccati.
Educati a sopravvivere, a performare, ad arrangiarsi.
E così che, un giorno dopo l’altro, si finisce per non vivere più in una democrazia, ma in una sua imitazione sgualcita.
È così che nasce l’autoritarismo competitivo.
Non a colpi di manganello – almeno per ora – ma a forza di apatia.
Non con un colpo di stato – almeno per ora – ma con un colpo alla speranza.
È un regime che non si proclama.
Che non si impone, si insinua.
E che mentre, nella forma, continua a dirsi libero, di contro, nella sostanza smantella ogni contropotere.
Suona familiare?
È quello che stiamo vivendo oggi. In Italia. Ora.
Un governo che rappresenta una minoranza elettorale si comporta come se fosse investito di una missione assoluta.
Attacca la stampa, isola la magistratura, smonta la sanità pubblica, investe nel riarmo, tratta la gestione dei nostri dati come merce di scambio, colpisce il dissenso pacifico, manipola l’informazione.
Lo fa alla luce del sole.
Senza pudore.
Con la sicurezza di chi sa che nessuno oserà alzare la voce.
Questo perché chi dovrebbe gridare, tace.
Chi dovrebbe opporsi, tentenna.
Chi dovrebbe vigilare, dorme.
I giornalisti spesso si autocensurano.
I politici dell’opposizione si attorcigliano nelle mediazioni.
I cittadini si ritirano, esausti, nelle proprie paure.
E mentre ognuno si protegge come può, il potere si rafforza.
Perché l’autoritarismo moderno non ha bisogno di essere feroce, gli basta che nessuno lo sfidi.
Ci raccontano che è tutto sotto controllo.
Che va tutto bene.
Che ogni critica è un attacco ideologico.
Che chi protesta è sovversivo, chi scrive è fazioso, chi chiede risposte è nemico.
E intanto la Costituzione si consuma in silenzio, come una candela dimenticata.
Questa non è solo una crisi politica.
È una crisi morale.
È l’abdicazione collettiva a ogni responsabilità.
È la trasformazione lenta, ma inesorabile, della cittadinanza in un pubblico anestetizzato.
In un popolo gestito, incanalato.
La pluralità viene sostituita da una voce sola.
La verità viene rimodulata a seconda dell’utilità.
La libertà diventa un privilegio, non più un diritto.
Tutto questo, però, accade solo se glielo permettiamo.
Solo se restiamo zitti.
Solo se continuiamo a guardarci i piedi mentre il pavimento crolla.
Spesso per scherzare si dice che un problema rimandato, è un problema risolto, ma il tempo non è domani.
È adesso.
È adesso che serve il coraggio di dire le cose come stanno.
Di chiamare ogni abuso con il suo nome.
Di denunciare ogni compromesso.
Di rifiutare la narrazione del non si può fare nulla.
È adesso che serve la voce dei giornalisti liberi, la fermezza dei politici onesti, l’energia dei cittadini vigili.
È adesso che serve la forza di una comunità che rifiuta di rassegnarsi.
Perché ogni giorno in cui non resistiamo, desistiamo.
E, con noi, muore un pezzo di democrazia.