Cento giorni di prepotenza.

Cento giorni di prepotenza.

di Roberta Baiano

 

Cento giorni. 

Un tempo che dovrebbe servire a prendere le misure al Paese, a distendere i muscoli istituzionali, ad avviare con prudenza un’agenda seria. 

Sotto la presidenza Trump, però, questi cento giorni sono bastati per mettere a soqquadro l’idea stessa di democrazia americana. 

 

Cento giorni in cui una frenesia di ordini esecutivi – oltre 130 – ha preso il posto del confronto parlamentare. 

 

Qui, comunque, non è solo la forma a essere saltata. 

È la sostanza. 

 

Il diritto ha smesso di essere un vincolo, una garanzia e si è fatto strumento di pressione. 

Il Congresso è stato svuotato. 

La Corte Suprema è stata ignorata. 

La spesa pubblica è stata trasformata in un’arma politica usata senza mediazioni. 

 

Gli agenti federali si muovono ora come battaglioni privati, pronti a colpire chi non si allinea.

Le città santuario sono minacciate di ritorsioni.

Le case vengono perquisite senza mandato, e i quartieri sono pattugliati con lo scopo non dichiarato – ma chiarissimo – di seminare panico.

 

È propaganda visiva, è pedagogia della paura.

 

L’America in tutto questo sembra assistere, impotente, a un ribaltamento silenzioso quanto brutale. 

I bambini devono comparire in tribunali dell’immigrazione senza i propri genitori.

Alcuni giudici vengono portati via in manette. 

Gli studenti sono trascinati via da squadre in borghese e molti funzionari pubblici sono stati costretti a dimettersi. 

Harvard ha rifiutato le pressioni, il direttore di 60 Minutes si è licenziato non senza denunciare l’impossibilità di continuare a raccontare la verità. 

Il disegno è coerente, preciso, totalizzante.

 

Ad allarmare ancora di più è stato il fatto che Trump non è da solo. 

Dietro, infatti, agisce anche una rete di ideologi duri, sospinti da fondamentalismo e da sogni distopici di un ordine sociale nuovo e selettivo, che si nutre di esclusione.

Architetti di una nuova forma di governo autoritaria, patrimonialista, vendicativa. 

 

Con la crociata anti-woke, la purificazione delle università, il ridimensionamento del pubblico e dei suoi valori è cristallino il progetto di una restaurazione mascherata da novità.

 

Eppure, qualcosa scricchiola. 

I dati economici – quelli veri, non quelli inventati – raccontano un’altra storia rispetto a quello che viene riportato sui falsissimi stendardi della grandezza. 

 

La crescita del PIL è risicata, i consumatori sfiduciati, Wall Street in affanno. 

La manifattura arranca, il traffico con la Cina crolla. 

Il presidente minaccia le aziende di massacrarle se dovesse mancare uno spostamento della produzione in territorio USA.

Il suo consenso, impietoso, scivola verso il baratro. 

Un misero 39% d’approvazione, il peggior dato dai tempi della Grande Depressione.

 

Ma non è questo il punto. 

Il vero terremoto non è economico. 

È istituzionale. È morale. 

 

L’America ha scoperto che la sua democrazia non è impermeabile. 

Che può diventare ostaggio di un uomo solo, capace di agitare gli istinti peggiori e piegare le istituzioni al proprio narcisismo vendicativo. 

Un monito che dovrebbe servire anche ad altri stati, compreso il nostro. 

 

Perché il potere, una volta preso, non si lascia scappare facilmente. 

Perché per uscire da questa stretta servirà uno sforzo doloroso e drammatico quanto inevitabile.

Perché, se questi sono stati solo i primi cento giorni dell’America, allora sì – davvero – non abbiamo ancora visto niente.

E nessuno di noi è al sicuro.