Il dilemma romantico-amministrativo del nuovo millennio

Il dilemma romantico-amministrativo del nuovo millennio

di Roberta Baiano

 

Sposarsi o non sposarsi? 

Sempre più coppie scelgono di convivere, saltando a piè pari altari, bomboniere e foto in posa davanti alla torta. 

Il matrimonio, infatti, con i suoi riti e i suoi obblighi, sembra affaticato, un po’ fuori forma, mentre la convivenza avanza, invece, con passo leggero e pratico.

Una casa in due, una lavatrice da condividere e magari comunque un mutuo da firmare.

 

C’è chi grida alla crisi dei valori, convinto che il calo dei matrimoni sia solo l’inizio della fine della civiltà così come la conosciamo. 

C’è chi la butta sulla crisi economica, come se ogni coppia evitasse le nozze solo per non invitare quei cinquanta parenti che non si sa mai dove piazzare. 

E poi ci sono i più audaci, quelli che amano le correlazioni ardite; insomma, quelli che giurano che la coabitazione cresce con l’aumento del livello d’istruzione delle donne. 

Perché si sa, una donna appena prende una laurea, indossa la sua corona d’alloro e subito sente quella irresistibile voglia di convivere senza sposarsi.

 

Sotto tutta questa retorica, comunque, c’è una realtà più semplice: convivere è spesso più comodo, ma non per questo si tratta di una relazione “di serie B”. 

 

Anche per questo la Legge Cirinnà ha previsto il riconoscimento delle convivenze di fatto, offrendo la possibilità — non l’obbligo — di registrare l’unione all’anagrafe. 

Basta, così, una dichiarazione congiunta nel Comune di residenza per ottenere un certificato di stato di famiglia che apre la porta a diritti come l’accesso alle visite in ospedale, il diritto di abitazione in caso di decesso del partner e la possibilità di essere nominato rappresentante legale per le decisioni personali e sanitarie.

 

Non tutti possono registrarsi, infatti, bisogna essere maggiorenni, non imparentati, non sposati o uniti civilmente con altri, e i separati devono attendere il divorzio. 

 

E poi c’è il contratto di convivenza, con cui si può stabilire chi contribuisce a cosa, dove si abita, se si vuole vivere in comunione o separazione dei beni – la comunione va richiesta espressamente. 

Ma attenzione, tutto dev’essere scritto, firmato e sottoscritto davanti a un avvocato o a un notaio, e trasmesso al Comune entro dieci giorni. 

Il romanticismo.

 

E quando finisce? 

Si compila un modulo, si allega il documento, si consegna all’anagrafe e via, ognuno per la sua strada. 

Ma attenzione!

Questo vale solo per la registrazione della convivenza. 

Il contratto, se c’è, va sciolto con lo stesso atto formale con cui è stato creato, altrimenti se uno dei due resta senza risorse, ha diritto anche agli alimenti per un periodo proporzionale alla durata della convivenza. 

 

Alla fine, le convivenze sono diventate la nuova grammatica dell’amore.

Un amore che non ha bisogno di petali di rosa sul pavimento o di libretti messa stampati in carta perlata per sentirsi vero. 

È un amore che si costruisce allo stesso modo tra la spesa da dividere, le bollette da pagare e le serie tv da guardare insieme sul divano, e il preparare il caffè la mattina anche quando è il turno dell’altro.

 

Pazienza se poi c’è sempre chi non si rassegna e si ostina a incasellare le scelte delle persone in mancanze. 

La verità è che, forse, si convive perché la quotidianità condivisa è già di per sé un impegno, spesso ben più concreto e duraturo di una firma in Comune e di una torta a tre piani.

 

Le persone non hanno smesso di credere nell’amore. 

Hanno solo iniziato a crederci in modo diverso. 

Meno dichiarazioni pubbliche, più gesti privati. 

Meno convenzioni sociali, più intesa personale. 

 

In fondo, ciò che conta non è l’etichetta, ma il progetto che due persone decidono di costruire. 

Che lo facciano davanti a un altare, a un notaio o semplicemente dividendo un set di pentole – che comunque costano assai – poco importa. 

L’importante è esserci, davvero.