Astensione: la scelta di chi ha scelto per tutti.

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Astensione: la scelta di chi ha scelto per tutti.

di Roberta Baiano

 

Hanno iniziato piano. 

Con una smorfia, una battuta, una frase lasciata cadere con noncuranza nei palazzi che contano: “Tanto non serve andare a votare”. 

Poi lo hanno detto più forte. 

Poi lo hanno proprio consigliato.

 

Ed eccoci qui. 

A chiederci se davvero sia diventato normale, persino lecito, che chi dovrebbe custodire la democrazia suggerisca di lasciarla sola, disertata, ignorata. 

 

È il contrario di quello che dovrebbe accadere.

Bisognerebbe prenderle a una a una, le mani di questo Paese, e accompagnarle verso le urne. Perché lì dentro c’è ancora un margine di riscatto. 

C’è un modo per dire “io ci sono” che non urla in piazza, ma vale cento piazze.

 

Votare è l’atto meno rumoroso che esista, eppure il più potente

Ma se ti convincono a non farlo, ti tolgono l’ultima cosa che nessun algoritmo, nessun leader, nessuna propaganda potrà mai decidere al posto tuo: la responsabilità.

 

Chi invita all’astensione — soprattutto se ha un ruolo istituzionale — tradisce un principio. 

Non quello della maggioranza, non quello della vittoria, ma quello della fiducia.

Perché, se i cittadini fanno così paura, allora il potere ha perso la sua dignità.

 

L’8 e il 9 giugno non si vota per simpatia. 

Non si vota per convenienza. 

Si vota per ricordare che esistiamo.

 

Cinque referendum: quattro sul lavoro, uno sulla cittadinanza. 

Cose vere, tangibili

Il diritto a non essere licenziati come numeri. 

Il diritto a essere risarciti per davvero se vieni trattato ingiustamente. 

Il diritto ad avere un contratto che non sia solo un foglio da stracciare. 

Il diritto a sapere che tutti i soggetti coinvolti in un appalto per un lavoro rispondano di te. 

E sì, anche il diritto a diventare cittadini senza dover aspettare una decade.

 

Si dice che non si tratti di temi centrali. 

Si dice che tanto il quorum non si raggiungerà.

Ma la verità è che chi spera nell’astensione non vuole che le cose cambino. 

Vuole che restino dove sono. 

Comode per pochi, scomode per molti.

 

E allora sì, la migliore risposta è votare. 

Anche solo per disturbare il calcolo. 

Anche solo per dire che no, non ci basta il teatrino, le promesse vuote, le facce sempre uguali che sorridono. 

 

Votare per rispetto verso chi ancora ci crede, per chi non ha voce, per chi quella scheda se la sogna. 

Votare per non delegare il futuro al disinteresse altrui.

 

Chi ci governa ha il dovere di difendere il diritto al voto, non di affossarlo o sabotarlo. 

Chi ha il potere deve accettare il rischio del dissenso

Chi ha paura di perderlo, quel potere, dovrebbe forse interrogarsi sul se questo sia mai stato legittimo.

 

Non è questione di destra o sinistra. 

È questione di stare — o no — dalla parte della partecipazione. 

Dalla parte giusta.

 

Chi ci crede, vota

Chi non ci crede, preferisce il vuoto.

 

L’8 e il 9 giugno non servono eroi. 

Servono persone normali, stanche ma presenti, che prendano una scheda in mano e la riempiano ancora una volta di significato. 

 

Il cambiamento non viene da solo, non accade da solo. 

Accade quando qualcuno lo scrive, a matita copiativa, nella cabina di un seggio.