Contro il sonno della ragione: perché difendere la cultura adesso

Contro il sonno della ragione: perché difendere la cultura adesso

di Roberta Baiano

 

In un’Italia che ha perso la voglia di capire, la cultura è diventata un bersaglio. 

Non è più vista come risorsa, ma come minaccia

E il romanzo Il censimento dei radical chic di Giacomo Papi, con la sua inquietante lucidità, ci mostra quanto sottile sia oggi il confine tra la distopia e la cronaca. 

Non serve l’esagerazione per inquietare: basta guardarsi intorno.

 

Nel libro, una battuta in un talk show – una citazione di Spinoza – basta a trasformare un tranquillo professore in un nemico dello Stato. 

Una pallottola davanti a casa, il pubblico ludibrio, la macchina del fango. 

Poi, la schedatura di massa degli intellettuali, giustificata con una finta tutela. 

 

A fianco, la creazione dell’“Autorità garante per la semplificazione della lingua italiana”. 

Un potere che non solo semplifica le parole, ma semplifica il pensiero. 

Così, mentre si bandisce la complessità, si legittima la barbarie.

 

Non è satira. È una radiografia dell’oggi.

 

Perché è questo che accade quando il pensiero viene ridotto a sospetto, e il sapere a colpa. 

Il romanzo ci scuote, ci strattona, ci costringe a guardare il presente, non il futuro. 

Non ci parla di un modo che rischiamo di diventare, ma di quello che già siamo diventati. 

 

Un Paese in cui l’ignoranza non è più solo una condizione, ma una scelta politica. 

 

Dove ogni giorno serve un nuovo nemico: prima gli immigrati, poi i rom, poi i “raccomandati”, poi le minoranze sessuali. 

Ora, gli intellettuali. 

Ogni identità va trasformata in colpa, ogni pensiero in provocazione.

 

Così si annienta la cultura: dicendo che è noiosa, che è arrogante, che è elitaria. 

Che umilia il popolo. 

Che non serve a nulla. 

Ma la cultura non è una torre d’avorio, è una strada: tenta di contenere gli istinti, di orientarli, di dare un senso alle spinte distruttive che altrimenti ci travolgerebbero. 

È la fatica di farsi capire e di capire gli altri. 

È un atto di civiltà. 

E oggi, quella civiltà vacilla.

 

Quando la conoscenza smette di produrre cambiamento, quando non offre più possibilità, quando viene percepita come un orpello inutile, la società si spezza. 

È un cambiamento profondo, silenzioso, che scava. 

E che prima o poi, inevitabilmente, esploderà. 

 

Perché, quando si smette di credere nel potere delle parole, resta solo la violenza. 

E le parole, quelle vere, quelle che fanno pensare e non solo reagire, quelle che accendono dubbi invece di infiammare certezze, diventano pericolose. 

Come lo sono sempre state, nei tempi bui.

 

Ci eravamo illusi che bastasse la ragione per arginare l’idiozia. 

Ma adesso che l’intelligenza non fa più rumore, e la stupidità diventa sistema, ci ritroviamo a domandarci a cosa serva la cultura. 

La risposta è una sola: serve a non sentirsi soli. 

Serve a ricordarci che non siamo gli unici a farci domande, a vacillare, a cercare un senso. 

Che non siamo estranei, anche se tutto ci spinge a crederlo.

 

Papi, con la sua ironia amara e lucida, non ci dà soluzioni, ma ci mette davanti allo specchio e ci sfida a non distogliere lo sguardo.

 

E allora forse sta a noi, adesso, imparare di nuovo a guardare con occhi svegli. 

A difendere la complessità, anche quando è scomoda, a rivendicare il diritto di pensare e di capire, anche quando costa fatica. 

 

Non basta più indignarsi: bisogna risvegliare una lucidità collettiva, quella che ci impedisce di credere alle semplificazioni tossiche, quella che ci salva dallo scivolare nel ridicolo feroce. 

Perché la cultura non è un lusso per pochi, è una necessità per tutti. 

E se non la proteggiamo ora, non avremo un domani abbastanza lucido da poterci riconoscere.