La posizione della Cassazione in tema di gestione economica comune nelle relazioni affettive non formalizzate
La posizione della Cassazione in tema di gestione economica comune nelle relazioni affettive non formalizzate
di Luca Orlando
Nel contesto delle relazioni affettive non formalizzate, come le convivenze more uxorio, si presenta frequentemente la questione della gestione economica comune e, in particolare, del destino delle somme di denaro versate da uno dei partner a beneficio dell’altro durante la vita insieme.
Questo tema assume rilievo soprattutto al momento della cessazione della convivenza, quando uno dei due chiede la restituzione di quanto versato, magari per spese straordinarie, mutui, ristrutturazioni, acquisti immobiliari o altre contribuzioni significative.
La giurisprudenza italiana, e in particolare la Corte di Cassazione, ha avuto occasione di chiarire in più pronunce che, in linea generale, non si ha diritto alla restituzione automatica delle somme elargite all’interno di una relazione affettiva stabile e duratura, quando esse sono riconducibili a un comportamento volontario e sono state effettuate in adempimento di doveri morali e sociali, così come previsto dall’articolo 2034 del Codice Civile.
L’ordinamento distingue infatti tra obbligazioni civili, che sono giuridicamente vincolanti e coercibili, e obbligazioni naturali, che, pur non essendo coercibili, quando sono eseguite spontaneamente non danno luogo a diritto di ripetizione.
Se, durante la convivenza, un partner decide di contribuire alle spese dell’altro, pagare parte di un mutuo intestato solo a lui o finanziare progetti comuni, tale comportamento, se conforme alla logica di solidarietà affettiva e coabitazione, viene spesso qualificato come adempimento di un dovere morale-sociale e dunque non ripetibile.
Tuttavia, ogni caso va valutato nella sua specificità. In presenza di erogazioni particolarmente ingenti, sproporzionate rispetto alle condizioni economiche di chi le ha sostenute o del tutto sganciate da un reale progetto comune, può emergere un profilo di ingiustificato arricchimento o di pagamento indebito, tali da giustificare la restituzione.
Ad esempio, se una parte ha versato ingenti somme per il mutuo di una casa intestata all’altro convivente, senza alcun ritorno in termini di titolarità dell’immobile e senza una comune intenzione di contribuire al progetto abitativo, allora la giurisprudenza è orientata a riconoscere una possibile tutela.
La prova dell’intento sottostante ai versamenti è decisiva: se si tratta di una liberalità pura, sebbene non formalizzata con atto di donazione, può non essere rimborsabile. Ma se il versamento avviene a titolo di prestito, con un accordo, anche solo verbale ma dimostrabile, o se si dimostra che è stato effettuato in funzione di un progetto comune poi disatteso, la richiesta di rimborso può trovare accoglimento.
Inoltre, la valutazione dell’equilibrio tra le prestazioni effettuate da ciascun convivente può influenzare l’esito del giudizio.
In definitiva, in assenza di un matrimonio o di una unione civile, la convivenza di fatto non crea automaticamente vincoli patrimoniali o diritti di rimborso. Ciononostante, quando emergano squilibri evidenti o mancanza di corrispettività nelle prestazioni, può farsi strada un’azione fondata sull’arricchimento senza causa o sull’ingiustificato pagamento.
Ogni situazione, dunque, va analizzata attentamente, anche in relazione alla durata della convivenza, al tenore di vita comune e alla presenza di eventuali figli, che possono incidere sull’interpretazione del comportamento delle parti.
La giurisprudenza recente invita quindi alla prudenza e alla chiarezza: se si desidera evitare equivoci o future controversie, è opportuno formalizzare accordi economici all’interno della convivenza, o quantomeno tenerne traccia, onde evitare che il legame affettivo diventi fonte di conflitti patrimoniali al termine della relazione.