Respinto

Respinto

di Roberta Baiano

 

“Ogni libro porta con sé un mondo di storie: non solo quelle scritte, ma anche quelle vissute.

Dietro ogni pagina ci sono immagini, ostacoli, follie e momenti di genio che rendono gli autori 

unici, strani e, in fondo, un po’ simili a noi”

 

Il sentiero è ignoto, il respiro è corto. 

Tornare indietro non è un’opzione praticabile, dietro c’è la fine, netta, certa. 

Davanti solo un forse. 

Una speranza sottile, instabile.

Il cuore batte in modo innaturale, violento.

La realtà stringe, soffoca. 

Una spirale che non dà tregua.

 

Walter Benjamin è in fuga. 

La Francia è occupata, lui è ebreo e questo basta per condannarlo. 

Cammina verso un confine che, come scoprirà a sue spese, si muove, si dissolve, si richiude. 

Con sé ha una valigia di cuoio. 

Dentro, un manoscritto. 

L’ultimo. 

È vivo, è tutto ciò che resta.

 

Attorno, la paura non ha più forma. 

Impregna l’atmosfera ed è presente ovunque. 

Entra anche nei gesti, nei silenzi, nel modo in cui si evita lo sguardo degli altri perché nessuno è affidabile e ogni contatto può essere l’errore finale.

 

Nel 2025, questa stessa aria si respira altrove. 

In chi attraversa frontiere, sabbie mobili, acque senza approdo. 

In chi scappa da regimi che hanno cambiato volto, ma impongono lo stesso silenzio. 

 

Si corre senza sapere se ci sarà un arrivo. 

Ci si affida nel proprio tutto a mani estranee sperando che capiscano, che si dischiudano subito perché davvero non c’è tempo più per spiegare, ma solo per essere visti. 

Si chiede solo una possibilità minima che non sempre arriva, anche se ti chiami Walter Benjamin.

 

Mi ero illuso. Fino alla fine. 

Che bastasse passare inosservato, mimetizzarmi tra i fogli, le annotazioni, i pensieri lasciati a metà. Che ci fosse ancora tempo per finire almeno il mio ultimo libro.

Anche mentre tutto intorno crollava. 

 

A Marsiglia, in agosto, la città era piena di volti stanchi come il mio. 

Rifugiati, profughi, incastrati in un’attesa che non prometteva nulla. 

Avevo provato a ottenere un’uscita regolare, ma non ci sono riuscito. 

Così ho deciso di aggirare il sistema. 

Ho deciso di andare a piedi, oltre i Pirenei. 

Spagna, poi Portogallo. Poi, forse, l’Inghilterra o l’America.

 

Ero pronto al peggio

In tasca avevo morfina sufficiente, se fosse servito.

 

Ogni luogo era sovraffollato. Trovare una stanza era impossibile. 

I documenti, quelli falsi, avevano raggiunto costi indecenti. 

Poi qualcosa si è sbloccato e sono riuscito a ottenere un passaporto dall’American Foreign Service. Cercai Lisa Fittko – una primula rossa. 

Le dissi che avevo bisogno di passare. 

Mi promise che c’era un’alternativa. Non di certo agevole, ma sicura.

 

Avevo con me una cartella pesante e gliela mostrai.

Le dissi chiaramente che era la cosa più preziosa che possedevo. 

Dentro, il mio ultimo lavoro. 

 

Cominciammo la fuga

La fatica era costante, il terreno irregolare.

Ogni 10 minuti di cammino, 1 minuto di pausa. Io riprendevo fiato, mi aggrappavo a dei piccoli gesti meccanici come questo, poi andavamo avanti. 

Non ero fatto per quel tipo di viaggio, ma non c’era scelta. 

 

In lontananza la costa spagnola. 

Il 25 settembre. 

Lo ricordo bene.

 

Credevo che fosse fatta. 

Andai alla dogana e mostrai i documenti, ma mi bastò poco per sentire che c’era qualcosa che non tornava. 

Pensai, come sempre, di aver commesso qualche errore stupido, invece non dipendeva da me. 

 

Sfortuna ha voluto che quello stesso giorno, la legge fosse cambiata e adesso senza l’autorizzazione ufficiale del governo francese, nessun apolide sarebbe più potuto entrare in Spagna. 

Nemmeno in transito. 

 

Il giorno dopo sarei stato accompagnato al confine.

E da lì, riportato indietro.

 

Quello che significava lo sapevo bene. 

La cattura. 

Il trasferimento. 

Il campo di concentramento.

La fine

 

Il margine che avevo si era esaurito.

 

Così la notte del 26 settembre, richiusi alle mie spalle la porta della stanza numero 4. 

Presi le compresse.

 

Il mattino dopo trovarono il mio corpo. 

Il referto parlava comodamente di emorragia cerebrale. 

Già, beh, era certamente più semplice così per tutti. 

 

Un poliziotto elencò gli oggetti trovati con me. 

C’era anche la mia borsa di cuoio. 

 

C’erano dei soldi. 

Non bastarono. 

L’albergatore volle il rimborso completo: la stanza, le telefonate, le bibite, persino la bara. 

Il poco che restava fu speso per affittare un posto al cimitero, per cinque anni. 

 

Poi, la mia destinazione finale fu l’ossario comune.

 

La borsa? Ah sì, quella. 

 

Il manoscritto non fu mai più ritrovato.

Risucchiato dal mio stesso oblio”.

 

La sua voce si interrompe qui, ma Walter Benjamin non è morto per caso. 

 

È morto per aver creduto in una promessa che poi è caduta in pezzi, in una possibilità che sembrava concreta e invece era solo una illusione.

Vittima di un errore di sistema. 

 

È morto perché aveva paura, e perché quella paura era fondata. 

Aveva intuito la direzione folle che il mondo stava prendendo, e sapeva che per lui, e per quelli come lui, non ci sarebbe stato posto.

 

Come succede ancora per tanti, troppi, anche oggi.

 

Il manoscritto che portava con sé non è mai effettivamente riemerso e non si sa se sia andato perduto davvero, o se stia aspettando in qualche luogo dimenticato. 

Forse non è nemmeno poi così importante sapere se verrà mai ritrovato. 

Forse è meglio sperare che sia ancora lì con lui, in un altrove che non ci è dato conoscere. 

 

La sua storia è ciò che rimane di una voce, di un pensiero, di una volontà che ha cercato di non piegarsi.

 

Purtroppo, a volte, quando qualcuno si arroga il diritto di poter scegliere che sei nato nel posto sbagliato e nel momento sbagliato, si muore così: da soli, davanti a un confine e a un impiegato o un uomo in divisa senza volto che ti guarda e dice no

 

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