Italiani per sangue, ma non per cultura.
Italiani per sangue, ma non per cultura. 
di Roberta Baiano
Ho letto La gioventù degli antenati di Alessandro Giammei durante un paio viaggi in metropolitana che dal paese mi portavano in centro a Napoli, in uno dei miei sabati di pranzo in solitaria.
È un libro che non ti lascia scorrere distrattamente tra le righe, ma che, anzi, pagina dopo pagina ti costringe a ripensare a concetti che davi per scontati come, per esempio, l’idea di “eredità culturale”.
E mentre leggevo, non ho potuto fare a meno di intrecciare le sue riflessioni con certe notizie di attualità che ormai fanno da colonna sonora fissa in questo Paese.
Perciò mi perdonerete se, nel consigliarvelo, userò le sue pagine come spunto per parlare di cittadinanza, di cultura e di come continuiamo a confondere entrambe con una questione di sangue.
Giammei ha un modo diretto – e anche un po’ spietato – di smontare i nostri miti nazionali.
Ci invita a smettere di considerarci “custodi ed eredi” di un passato glorioso e a diventare invece “curatori e artefici” di una cultura che, se non viene rinnovata, rischia di trasformarsi in un feticcio.
Perché, quando cresci convinto di essere il titolare unico di tutto ciò che va da Cesare a Caravaggio, non è facile camminare verso il futuro senza inciampare in un busto marmoreo.
Ed è qui che il discorso si fa più concreto – e anche più scomodo.
Oggi in Italia può ottenere il passaporto chi non ha mai visto Roma nemmeno in cartolina, a patto che riesca a dimostrare che il bisnonno era italiano.
Al contrario, un ragazzo nato e cresciuto nel nostro Paese, che magari ha fatto qui tutte le scuole e si sente italiano in ogni gesto e parola, deve aspettare i 18 anni per fare richiesta – sempre che la burocrazia non decida di rovinargli la festa con qualche cavillo.
Se Petrarca fosse vivo, probabilmente ci ricorderebbe che la grandezza di Roma non si trasmette per via di sangue o certificati di nascita – cosa che ha fatto già all’epoca – ma per amore e cultura.
Oggi invece, nell’A.D. 2025, a quanto pare, preferiamo affidarci ancora a un albero genealogico.
Intanto, intorno alle aule del Parlamento, il dibattito sullo ius scholae – la proposta che consentirebbe ai minorenni nati o arrivati piccoli in Italia di diventare cittadini dopo dieci anni di scuola – continua a essere presente unicamente in spot politici.
Forza Italia prova a darsi un tono dicendo che “il Parlamento è sovrano” – grazie per la ripassata di educazione civica, che comunque di questi periodi pare servire più di sempre – il PD chiede di calendarizzare, il M5S spinge per fare in fretta.
Azione promette – come sempre – il voto favorevole. Gli altri dubitano che Forza Italia farà qualcosa di diverso da annunciarla – come d’altronde fa da oltre un anno a questa parte.
Dall’altra parte Lega e Fratelli d’Italia restano granitici: per loro – e dice per l’Italia – “non è una priorità”.
A movimentare il quadro ci ha pensato anche il Ministro Valditara, convinto che “non si può essere cittadini italiani se non si conosce la geografia”.
Una dichiarazione nobile, certo.
Peccato che, se applicassimo lo stesso principio ai suoi colleghi Onorevoli parlamentari, rischieremmo di ritrovarci con Montecitorio e Palazzo Madama semivuoti – perché, diciamocelo onestamente, chissà quanti saprebbero piazzare correttamente l’Umbria su una cartina senza finire in Sud America.
E così, mentre al referendum non raggiunge il quorum e, anzi, risulta il quesito meno votato, il dibattito sulla cittadinanza si incarta nuovamente a causa di questo continuo confondere italianità e genetica, come se bastasse nascere da certe famiglie per sentirsi parte di una cultura.
Ma la cultura – quella vera – non è ereditaria.
È fatta di mani che lavorano, di voci che si intrecciano, di vite che si riconoscono parte di un luogo.
Se non lo capiamo, rischiamo di ridurre il Rinascimento – oggetto del libro – a un simbolo vuoto buono per le campagne pubblicitarie cringe del Ministero del Turismo, per le brochure patinate, e per i discorsi da bar “però noi abbiamo avuto il…”, ma incapace di dire qualcosa al presente.