Dati acquisiti da dispositivi elettronici del sospettato: quali limitazioni per i PM?

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Dati acquisiti da dispositivi elettronici del sospettato: quali limitazioni per i PM?
di Luca Orlando

 

Immaginate questo scenario: un pubblico ministero, intento a raccogliere prove per un’inchiesta su reati legati a gare d’appalto, decide di acquisire dati da un telefono e un iPad appartenenti a una persona sospettata. 

Con un decreto dispone il sequestro e fa eseguire una copia dei dispositivi, senza attendere il via libera da un giudice indipendente. 

 

Fin qui, può sembrare una procedura ordinaria, ma la Suprema Corte ci invita a riflettere: è giusto che un’autorità coinvolta nelle indagini decida da sola di leggere dati personali così delicati?

Secondo la Cassazione, la risposta è no. 

 

In una sentenza del 8 aprile 2025 (n. 13585), i giudici sottolineano un principio chiaro: quando si tratta di consultare contenuti digitali, serve un controllo preventivo da parte di un giudice o di un organismo terzo e imparziale, non un semplice atto del PM. 

 

Questa posizione trova solidità nelle decisioni della Corte di Giustizia europea: già nel gennaio 2021 la Grande Camera aveva chiarito che il PM — coinvolto nell’indagine — non può essere considerato un’autorità indipendente, capace di garantire equità.

 

Ma la questione non si ferma all’indipendenza dell’autorità. 

C’è da considerare anche il rispetto dei diritti fondamentali — privacy e proporzionalità in primis — sanciti dalla direttiva UE 2016/680. 

 

Le norme europee richiedono che il trattamento dei dati avvenga solo quando è necessario, chiaro, limitato a ciò che serve davvero e sostenuto da una base normativa adeguata. 

L’estrazione di migliaia di messaggi, foto, conversazioni senza una motivazione circostanziata finisce per violare questi canoni, finendo con l’invadere l’intimità della persona coinvolta.

 

Torniamo all’esempio: i dispositivi sequestrati sono stati trattati in modo generalizzato, senza indicare criteri selettivi e senza un’accertata necessità di indagare su ogni singolo file. 

 

Questo approccio — secondo i supremi giudici — configura un abuso che non si può giustificare solo con la complessità tecnica degli strumenti informatici. 

Prima di mettere mano alla corrispondenza digitale di una persona, è necessario avere una chiara giustificazione: senza, si rischia di trasformare la raccolta di prove in una violazione dei diritti.

 

Infine, si apre una questione pratica: se il PM procede senza controllo pubblico, il rischio è di lasciar spazio a violazioni non solo delle regole, ma anche della fiducia nella giustizia. 

Il giudice terzo, imparziale, rappresenta invece una garanzia che protegge il cittadino e conferisce legittimità agli atti investigativi.

 

In sintesi: la Cassazione manda un messaggio importante — non soltanto ai magistrati, ma a tutti noi. 

Non basta più il potere investigativo: serve responsabilità, equilibrio e trasparenza. 

 

Quando si incrociano segreti personali, telefonini, chat private, serve un filtro imparziale che dirà “sì” o “no” ad ogni accesso. 

Solo così la tutela dei diritti resta al centro del processo, non sacrificata sull’altare dell’efficienza giudiziaria.