Il femminismo non è un brand”. E Freeda ne paga il prezzo.
di Roberta Baiano
C’è un equivoco di fondo che continua a serpeggiare quando si parla di femminismo.
Un equivoco che Jennifer Guerra smonta con semplicità nel suo Il femminismo non è un brand.
Il femminismo non è un’etichetta da appiccicare a un rossetto, non è un filtro rosa da applicare alle stories, e non è nemmeno uno slogan motivazionale da stampare sulle magliette.
È un movimento sociale, politico, storico e come tutti i movimenti che ambiscono a cambiare il mondo, non si presta a essere impacchettato e venduto sugli scaffali virtuali.
Eppure, Freeda ci prova.
Dalla sua nascita si propone come il megafono del femminismo pop di quarta ondata, con parole d’ordine come inclusione, body positivity ed empowerment.
Usa un linguaggio giovane, fresco, perfetto per essere condiviso in tre swipe e un tap su Instagram.
L’idea funziona, almeno all’inizio: in sei mesi un milione di follower, in un anno centinaia di dipendenti e investitori illustri come Elkann, Berlusconi.
Sì, proprio loro!
Proprio cognomi che per decenni hanno rappresentato non solo il patriarcato imprenditoriale, ma anche il capitalismo.
Pochi sembrano notarlo però, o ne sono a conoscenza, perché il femminismo secondo Freeda ha il volto rassicurante di un carosello colorato e la voce morbida di chi sa conquistare un target “consapevole”.
Jennifer Guerra però avverte che, quando il femminismo diventa uno strumento di marketing, perde la sua forza trasformativa e si trasforma in qualcosa di comodo e digeribile.
Freeda si muove proprio su questo confine sottile.
Alterna post di denuncia sociale a pubblicità di mascara e SUV, parla di parità salariale e subito dopo ospita campagne di marchi che di parità si ricordano – forse – solo l’8 marzo.
Così la lotta per i diritti si piega alla logica del profitto e smette di essere motore di cambiamento per diventare merce.
Non sorprende che molte donne, con il tempo, decidano di abbandonare il profilo preferendo spazi più piccoli, magari più radicali, ma sicuramente meno patinati.
Pagine che non confondono l’attivismo con il lancio di una nuova linea di trucchi.
Intanto Freeda prova a reinventarsi: nuove sedi, nuove business unit, tentativi di diversificazione. Ma la sostanza non cambia.
La sopravvivenza dipende sempre dalla capacità di vendere spazi pubblicitari a brand che flirtano con il femminismo solo quando serve a incrementare le vendite.
Ed è qui che la profezia di Guerra prende forma.
Quando una lotta sociale viene trattata come un brand, finisce per sottostare alle sue stesse regole e alla stessa brutalità del mercato.
Funziona finché produce engagement e fatturato.
Poi, quando il pubblico si stanca e gli sponsor tentennano, si spegne.
Questa non è solo la storia di Freeda, ma di un sistema che inghiotte qualsiasi movimento, anche il più rivoluzionario, e lo restituisce sotto forma di prodotto da acquistare.
È la storia di un mondo che preferisce un femminismo in color pastello, inoffensivo, addomesticato, insomma che non scalfisca davvero i rapporti di potere.
Freeda non crolla perché la causa dell’uguaglianza non ha forza.
Crolla perché ha dimenticato – o più probabilmente ha voluto ignorare – che una lotta politica non è compatibile con i bilanci trimestrali e con i pitch agli investitori.
Soprattutto non può prosperare sui conti correnti di chi ha costruito imperi sulle stesse ingiustizie che dice di voler combattere.
Alla fine, la lezione resta crudele nella sua chiarezza: se trasformi una battaglia in brand, il mercato ti tratterà come qualsiasi altro brand.
E quando non genererai più abbastanza profitto, ti lascerà affondare senza rimorsi.
E no, non importa quante volte ripeti “you go girl” tra una pubblicità e l’altra: svuotare qualcosa di così importante del suo significato non ti salverà quando il sistema deciderà che non gli servi più.

