Costruire il nemico: Arthur Finkelstein, lo spin doctor dei cattivi.
di Roberta Baiano
Stavo sistemando la libreria quando mi è caduto tra le mani un libricino di Umberto Eco: Costruire il nemico.
Ricordo di averlo letto anni fa con una certa inquietudine, ma stavolta le pagine mi hanno lasciato addosso una sensazione diversa.
Un pensiero che proprio non sono riuscita a scacciare, e per cui siamo qui adesso tra queste righe: e se il nemico non fosse mai stato conseguenza di una fatalità? Se, invece, fosse un prodotto, confezionato con cura da chi ha studiato e conosce bene il pensiero collettivo e le fratture sociali?
Allora ho pensato a una persona in particolare.
Di Arthur Finkelstein si sa poco, ed è già questo il primo indizio.
Non amava le interviste, rifuggiva i riflettori, lasciava dietro di sé solo le tracce delle vittorie che aveva contribuito a costruire.
Niente biografie ufficiali, solo i suoi risultati e le voci sussurrate nei corridoi della politica.
Infatti, il suo nome compare accanto a leader che hanno cambiato la storia: Barry Goldwater, George Bush, Jim Buckley, Jesse Helms, Alfonse D’Amato, Connie Mack, George Pataki, Richard Nixon, Ronald Reagan, Benjamin Netanyahu, Viktor Orbán.
La lista sembra il catalogo del potere, e lui l’ha attraversata come un fantasma, invisibile quanto determinante.
Era il 1995. Israele tremava dopo l’assassinio di Yitzhak Rabin e la speranza di pace si era infranta sotto il fuoco di un estremista.
Shimon Peres, erede naturale di quella stagione, guidava i sondaggi con venti punti di vantaggio. Benjamin Netanyahu era considerato fuori dai giochi.
Poi entrò in scena Finkelstein con le sue analisi spietate.
Leggeva i dati, tastava il polso dell’elettorato, identificava il “noi” e il “loro”, e quando non c’era, quando un nemico non c’era, lo costruiva.
Il clima da quel momento in poi cambiò.
Netanyahu si fece più autorevole – capelli tinti di grigio, postura studiata – e il messaggio più netto: sicurezza contro minaccia.
Alla fine, vinse, ed è ancora lì libero di compiere crimini impuniti contro l’umanità.
Era lo stesso schema che Finkelstein aveva elaborato e applicato in America.
Per Nixon aveva indicato il trittico che avrebbe polarizzato il paese: droga, criminalità, colore della pelle.
Con Reagan aveva contribuito a diffondere un motto che sarebbe tornato decenni dopo con Trump – nella cui war room spiccano i nomi di diversi collaboratori di Finkelstein: Let’s Make America Great Again.
La tecnica era quella della negative campaigning: non sedurre l’elettore con promesse, ma distruggere la credibilità dell’avversario.
Non far innamorare, ma far odiare.
La convinzione era che la maggior parte degli elettori avesse già deciso per chi votare; bastava scoraggiare quelli dell’altro fronte.
Quando Netanyahu consigliò a Viktor Orbán di lavorare con Finkelstein, la strategia in Ungheria fu ancora una volta la stessa.
Prima demolire il governo socialista, poi cercare un nuovo nemico: i burocrati, il grande capitale straniero e… George Soros.
Il nemico perfetto, il più grande mostro.
Di vero solo che fosse ebreo, il resto tutte fake news inventate per l’occasione.
Che fosse stato proprio Soros a finanziare gli studi di Orbán a Oxford, con una borsa di studio della Open Society, era un dettaglio trascurabile.
Lo spin doctor è figura che ancora oggi genera diffidenza.
Architetto di comunicazione o ingegnere della menzogna?
Eppure, senza di lui un candidato è un volto tra tanti, mentre con lui diventa un’arma politica.
A che costo tutto ciò, ha a che fare solo con l’etica di ognuno.
Finkelstein aveva un talento che inquietava: separare la società in blocchi contrapposti, fino a rendere impossibile e impensabile ogni mediazione.
Era l’uomo che capiva quali parole bruciavano di più, quali ferite scoprire, quali paure amplificare.
Era l’uomo che già negli anni ’70 aveva inventato il microtargeting fatto di campagne via posta e marketing telefonico per raggiungere segmenti specifici dell’elettorato con messaggi calibrati.
Nel 2011, in uno dei suoi ultimi rari interventi pubblici, disse:
“Volevo cambiare il mondo. L’ho fatto. L’ho reso peggiore”.
Morì sei anni dopo.
Il suo ultimo progetto era stato proprio l’Ungheria.
Eco scriveva che il nemico, se non c’è, va costruito.
Che la convivenza con “l’altro” è difficile perché non è noi, e quindi diventa insopportabile.
Forse Finkelstein aveva semplicemente preso atto di questa verità e vi aveva posto le basi del suo mestiere.
Un mestiere che ha plasmato il nostro presente, e che ci lascia con alcuni dubbi: davvero possiamo riconoscerci senza un nemico da odiare? E questo nemico chi lo ha scelto per noi?

