Intervista al prof. Paolo Valerio, docente di psicologia clinica all'università Federico II
Oggi ho il piacere di proporvi una mini intervista ad uno dei massimi esperti in fatto di sessualità e di identità di genere, il prof. Paolo Valerio, docente di psicologia clinica all'università Federico II, nonché presidente dell' Osservatorio Nazionale Identità di Genere e della Fondazione Genere Identità Cultura, al quale rinnovo il mio più sentito ringraziamento per aver trovato il tempo di rispondere alle domande che ho pensato di sottoporgli. Mi preme anche segnalarvi una “Guida dei termini politicamente corretti” da utilizzare, tutti legati alla comunità LGBT, che potrete trovare su www.bullismoomofobico.it oppure su www.napolidivercity.it oppure su www.sinapsi.unina.it .
1. Negli ultimi mesi si è molto parlato della ‘teoria dei gender’e , a mio avviso, molti di coloro che ne parlano, principalmente i detrattori, credo facciano una gran confusione tra il concetto di sesso e quello di orientamento sessuale. Lei cosa ne pensa?
Senza dubbio i due concetti sono molto diversi tra loro, sebbene intrecciati in dei punti nodali. Penso che non sia davvero utile partire solo dalla differenza tra sesso e orientamento sessuale. Questo perché queste due dimensioni fanno parte di una costellazione ancora più complessa che è l’identità sessuale. Una serie di modelli teorici, tra cui quello di Shively e De Cecco del 1977 o di Lev del 2004, definiscono l’identità sessuale come una dimensione prettamente soggettiva del proprio essere sessuato. L’identità sessuale è una complessa dimensione che si sviluppa in diverse fasi evolutive della vita, a più riprese per così dire, e che è la risultante di un intreccio sempre imprevedibile di aspetti biologici, psicologici e socio-culturali. Il sesso e l’orientamento sessuale rappresentano solo due delle dimensioni dell’identità sessuale. Oltre ad esse, troviamo anche l’identità di genere e il ruolo di genere.
Molto brevemente, il sesso rappresenta l’aspetto più biologico dell’identità sessuale e si riferisce alle caratteristiche cromosomiche, ormonali, anatomiche e fisiologiche sulle quali si staglia immediatamente quel processo in apparenza semplice, ma in realtà molto complesso che è l’assegnazione sessuale. Quando un bambino nasce, immediatamente viene riconosciuto come maschio o femmina, sulla sola base delle caratteristiche dei genitali visibili ad occhio nudo.
Il problema in realtà è che ciò a cui il bambino viene assegnato non è tanto un sesso, quanto un genere specifico. E da qui, ci riallacciamo all’altra componente dell’identità sessuale, ovvero all’identità di genere. Quest’ultima va intesa quale il sentimento intimo e profondo di appartenere all’uno o all’altro sesso. Di sentirsi cioè maschi o femmine.
Già a 3 anni i bambini sono in grado di sentire di appartenere intimamente al genere maschile o a quello femminile, sanno cioè di essere un “maschietto” o una “femminuccia” e di solito questo corrisponde alle caratteristiche anatomiche che li caratterizzano.
Non è detto, però, che il sesso biologico corrisponda sempre al genere che si va sviluppando.
Ce lo insegnano le persone transgender, ovvero tutti coloro che percepiscono una discordanza tra il sesso che è stato loro assegnato alla nascita e il genere a cui sentono di appartenere. Allora, può succedere che un bambino assegnato al sesso maschile, crescendo possa sviluppare un’identità di genere femminile. Avrà movenze femminili, amerà giocare con le bambine, facendo giochi femminili. Non sarà interessato a giocare al calcio, ma preferirà giocare con le bambole. Tutto questo avrà conseguenze molto negative al livello familiare, al livello scolastico e al livello sociale e farà molto soffrire il bambino o la bambina che, per farsi accettare, saranno costretti a nascondere a tutti quello che provano al livello profondo
Continuando il discorso sulle differenti componenti dell’identità sessuale, abbiamo detto che c’è il ruolo di genere. Quest’ultimo si riferisce a quel complesso di comportamenti, atteggiamenti, manierismi che, in uno specifico contesto sociale, è riconosciuto come ‘gender-typed’, cioè come tipicamente maschile o femminile. Pensiamo, ad esempio, al modo di muoversi, di accavallare le gambe, di truccarsi, di vestirsi, di modificare atteggiamento a seconda del genere dell’interlocutore…tutti questi aspetti indicano il ruolo di genere che, in sostanza, rappresenta l’esperienza più pubblica e socializzata di quella, invece, più privata e soggettiva dell’identità di genere.
Infine, c’è l’orientamento sessuale. Esso si sviluppa compiutamente in adolescenza, sebbene le sue radici siano più ‘antiche’ e indica la direzione non solo della nostra sessualità ma anche della nostra affettività. Chi amiamo? Per chi proviamo attrazione sessuale? Le possibilità sono tante. Si può amare una persona del proprio stesso sesso o dell’altro sesso, ma si può anche amare sia l’uno che l’altro. Si parla, cioè, di omosessualità, eterosessualità o bisessualità.
Ecco, ritornando alla domanda iniziale, penso seriamente che la questione sia molto più complessa di quanto spesso sia riportato dai media, dalla politica o anche dalla scienza. Probabilmente, una maggiore chiarezza sulle diversificate e complesse dimensioni dell’identità sessuale potrebbe anche facilitare un dialogo più sereno e scevro da pregiudizi.
2. Crede che sia opportuno portare avanti una campagna di informazione e sensibilizzazione nelle scuole per insegnare ai ragazzi che non esiste un orientamento sessuale ‘giusto’ e che avrebbero la possibilità, qualora ne sentissero l'esigenza, di cambiare sesso?
Senza dubbio le campagne di informazione e sensibilizzazione, quando fatte con cognizione di causa e con una solida preparazione alle spalle, sono di estrema utilità sociale. Penso ad una serie di iniziative da me portate avanti insieme ad una serie di validi collaboratori che afferiscono al Servizio Antidiscriminazione e Cultura delle Differenze del Centro di Ateneo SInAPSi della Federico II di Napoli. Questo Servizio è composto da un’equipe di psicologi che, ogni anno, lavora in moltissime scuole del territorio campano, offrendo progetti di formazione e informazione il cui obiettivo fondamentale è la promozione di una cultura delle differenze. È bene, però, tenere in mente che non si può e non si deve attuare un’azione di totale contrasto, quanto piuttosto mostrare quanto le identità possano essere differenti e quanto questa diversità altro non è che arricchimento e possibilità di svincolamento da prigioni sociali che finirebbero per promuovere una sorta di aborto delle proprie potenzialità. Noi non promuoviamo il ‘cambio di sesso’. Non è questo il senso degli interventi. Noi promuoviamo una cultura differente, tentiamo di agire sul clima emotivo degli istituti scolastici nei quali entriamo, lavorando arduamente sia con i docenti e le docenti, sia con gli studenti e le studentesse, con lo scopo di promuovere il benessere di tutti e tutte.
3. Non ritiene che tutto ciò possa in qualche modo portare ad un progressivo annullamento delle differenze che intercorrono tra uomo e donna, come temono alcuni? E, se anche ipoteticamente così fosse, cosa significherebbe? Sarebbe un problema, o come dicono alcuni, ‘contro natura’?
Credo fermamente che promuovere il benessere psicologico dei ragazzi e delle ragazze, dei sistemi istituzionali, delle famiglie, e così via, non possa in alcun modo portare ad annullare le differenze tra l’uomo e la donna. Le differenze esistono. Nessuno intende negarle. Al contrario, come ho precedentemente detto, ciò che noi tentiamo di promuovere è proprio una cultura delle differenze. Ma non si può accettare che le differenze si schiaccino su stereotipi e pregiudizi che finiscono per alimentare violenza (simbolica e non), soprusi, prevaricazioni. La differenza tra l’uomo e la donna non riguarda certamente la forza fisica, la bellezza, il corpo. Tutto questo finisce per relegare alcuni a ranghi inferiori, perché meno forti, meno adatti, e quindi non degni di un posto nel sociale. Gli interventi che si focalizzano sulle questioni sessuali e di genere, al contrario di quanti molti pensano, altro non fanno che recuperare i valori sociali che si celano dietro alle differenze, quei valori di eguaglianza, di parità, che solo possono consentire un reale progresso della società verso forme sempre più democratiche e libere. E poi ‘contro natura’… cosa vuol dire veramente? Che in natura non esistano l’omosessualità o il transessualismo? Questa è una falsa credenza basata su ideologie piuttosto che su pilastri scientifici. L’eterosessualità pura, l’uomo macho o la donna servizievole altro non sono che invenzioni della nostra cultura, che di naturale ha conservato ben poco. Si potrebbe obiettare che la procreazione naturale possa avvenire solo grazie all’unione tra un uomo ed una donna. Questo è vero. Ma la società non si basa certo solo sulla filiazione. E l’amore? Che ruolo ha nella società? Non è forse proprio l’amore che rappresenta la forza motrice del progresso? Il problema è che molti intendono ‘amore’ solo come ‘amore eterosessuale’. Questo è uno sbaglio, un errore dovuto all’azione di un potentissimo meccanismo ideologico che è l’eterosessismo, ovvero il credere che ogni relazione possa essere di natura esclusivamente eterosessuale. Ciò che, in fondo, mi chiedo è questo: perché credere che il dare diritti a chi non ne ha porti automaticamente a toglierne a chi, invece, già ce li ha? Sembra esserci una dialettica che si gioca tra il dare e il togliere. Forse si ha ancora paura della diversità? E questa paura cela l’angoscia del cambiamento?
4. Come commenta la storica sentenza del tribunale di Messina che ha accordato la possibilità ad un ragazzo di modificare il sesso riportato sulla propria Carta d'Identità senza essersi prima dovuto sottoporre ad un intervento chirurgico di adeguamento? E' questo il futuro del transessualismo?
Penso si sia trattato semplicemente di un gesto di grande civiltà! Le persone transessuali che vivono in Italia, a differenza di molti altri Stati europei e non, vivono un grandissimo problema: quello di poter modificare il proprio nome all’anagrafe solo dopo che hanno subito la Riconversione Chirurgica del Sesso (questo il nome tecnico degli interventi chirurgici a cui alcune persone transessuali si sottopongono). Molte persone transessuali desiderano proprio questo e la legge garantisce che ciò accada.
Qual è il problema? Non tutte le persone transessuali vogliono –per ottenere il cambio del nome sui documenti- essere costrette a sottoporsi a interventi di riassegnazione chirurgica dei genitali, di sottoporsi cioè a quegli interventi che recentemente l’Unione Europea ha definito di sterilizzazione. Qual è, quindi, il senso di una legge che non consente il cambio del nome senza aver effettuato interventi chirurgici ai genitali?
Io penso che dietro ad una legge del genere si nasconda un “tranello” ideologico che comporta dei rischi di non poco conto. Pensiamo ad una persona trans nata in un corpo maschile ma che avverte la propria identità di genere come femminile. Questa persona non avverte il bisogno di operarsi ai genitali, ma sente solo il bisogno, ad esempio, di avere un seno. La sua apparenza fisica è a tutti gli effetti femminile. Ha il viso truccato, dei lunghi capelli biondi, un portamento delicato (sto utilizzando appositamente una serie di stereotipi di genere cercando di rendere un’immagine ipersemplificata della persona). Si presenta ad un colloquio di lavoro e deve mostrare la sua carta di identità. È facile immaginare l’imbarazzo e l’incredulità del potenziale datore di lavoro. Ma è anche facile immaginare che il datore non assumerà questa persona, perché potrebbe avere non pochi problemi, non solo burocratici. Bene. Questo è un esempio banale, ma molto realistico, che ci mostra una tra le molteplici problematiche che una persona transessuale che non ha intenzione di operarsi può ritrovarsi a vivere. Da psicologo, non posso chiaramente solo fermarmi alle problematiche burocratiche vissute dalla persona transessuale. A un livello psicologico, infatti, questa persona potrebbe vivere con molto disagio il rifiuto che proviene dal mondo circostante che considera spesso la sua condizione come un vizio o peggio come una forma di malattia.
Ma ancor di più, questa persona potrebbe avvertire anche un altro disagio, quello del non sentirsi riconosciuta, neanche da uno Stato che non le consente di essere se stessa fino in fondo.
Io credo che, in questo caso, ci troviamo di fronte ad una grave violazione dei più elementari diritti umani, ovvero quello della libertà di autodeterminarsi.
È proprio in quest’ottica, infatti, che l’Osservatorio Nazionale sull’Identità di Genere-ONIG, la Fondazione Genere Identità Cultura – che entrambi presiedo - e altre associazioni hanno aderito a un ricorso alla Corte Costituzionale promosso dal Tribunale di Trento su sollecitazione dell’avv. Alexander Schuster perché fosse dichiarato anticostituzionale l’articolo dell’attuale legge 164/1982 (che regolamenta gli interventi di Riconversione Chirurgica del Sesso) che prevede che le persone transgender che richiedono il cambio di nome all’anagrafe, per ottenere ciò siano costrette, anche quando non lo desiderano, a sottoporsi a interventi di rettificazione chirurgica dei genitali.
Per ritornare al mio quesito iniziale relativo al‘tranello’ ideologico, a me sembra che dietro una siffatta legge si celi un meccanismo pregiudiziale che è quello del genderismo. Il genderismo è l’impossibilità di pensare al di là di due generi: tutto ciò che da essi si discosta è immediatamente tacciato come malato, perverso, contro natura, per riprendere l’espressione utilizzata in precedenza.
D’altra parte la stessa Università di Napoli Federico II, insieme all’Università di Torino, di Bologna, di Padova, di Bari e a tante altre consente agli studenti e alle studentesse transgender che sono ad esse iscritte di avere la possibilità di vedere riconosciuto il nome con cui desiderano essere appellati/e indipendentemente dal nome loro assegnato alla nascita. Hanno, infatti, previsto prima un doppio libretto e attualmente il riconoscimento di un’identità alias che li accompagna per tutto il percorso accademico.
Quello, quindi, che auspico è che il futuro delle persone transessuali, transgender, gender variant (questi sono i modo diversi in cui viene descritta la loro condizione) sia quello di vivere anche nel nostro Paese e nella nostra città in un mondo dove possano sentirsi accolte e libere di trascorrere la propria esistenza in modo sereno, senza sentirsi condannate, umiliate o rifiutate non solo dalla società ma dolorosamente spesso proprio anche dai loro familiari.
Questa non è pura utopia. Fino a poco più di 30 anni fa le persone omosessuali erano considerate malate di mente, se maschi erano esonerati dal servizio militare e in alcuni casi anche curati con elettroshock. Oggi solo poche persone , disinformate , la pensano in questo modo e la comunità scientifica considera dannose e condannabili tutte quelle terapie, così dette riparative, che dovrebbero “curare” le persone omosessuali. Lo stesso Ordine Nazionale degli Psicologi si è espresso in tal senso.
Anche a livello istituzionale si avvertono cambiamenti . Di recente si è concluso il progetto Napoli DiverCity, finanziato dal Comune di Napoli con fondi della Regione Campania finalizzato ad aiutare le persone Lesbiche, Gay, Bisessuali, Transessuali –LGBT a vivere un’esistenza serena e dignitosa e lo stesso Comune di Napoli ha attivato, come quello di Torino, uno specifico servizio destinato a garantire i diritti delle persone LGBT.