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Una moderna donna del Seicento: la vita di Artemisia Gentileschi a teatro

Scritto da Enrico Mezza Il . Inserito in Teatro

2015.09.17 - Una moderna donna del Seicento la vita di Artemisia Gentileschi a teatro

Nella costruzione platonica, l’arte è la materializzazione di un’idea. In realtà, ogni opera artistica rappresenta il dialogo tra due soggetti. Da un lato, l’artista, con i suoi turbamenti interni. Dall’altro lato, il pubblico, con le sue pretese. Ciò valutato, la storia conosce alcuni personaggi, che si dimostrano perfettamente consapevoli della realtà circostante. Risultano, dunque, capaci di mettersi al centro dell’opera, fino tagliare la tela con lo spessore umano della loro figura.

Il festival Vissidarte mette in scena al PAN di Napoli l’ultimo spettacolo della manifestazione: “Artemisia”, dedicato alla vita ed al sentire di Artemisia Lomi Gentileschi, figlia (d’arte) di Orazio. La sceneggiatura di Mirko Di Martino immagina la pittrice, interpretata da Titti Nuzzolese, al tramonto dei suoi anni, pronta ad una riflessione sul suo percorso artistico-personale.

Artemisia è, difatti, interrogata da un particolare inquisitore (Antonio D’Avinio), che, di volta in volta, veste i panni di un magistrato, di suo padre, di suo marito, fino a riconoscersi nella sua stessa coscienza. L’inquisizione-confessione ripercorre tutta la sua vita: un’infanzia da reclusa, l’orribile stupro che segnò la sua vita e la sua arte, un padre invidioso, la decisione di sposare chi l’abbia violentata, il suo esilio napoletano. Tuttavia, ciò che più interessa all’inquisitore è la sua arte.

In una società poco pronta alla figura di Artemisia, la pittrice vede nell’arte l’unico canale di libertà. Non vi sono barriere, non c’è alcun limite alla fantasia. Nelle sue opere la pittrice presta particolare attenzione al punto di vista femminile, che stavolta organizza l’intero spazio pittorico della tela. Ecco, dunque, che Gentileschi sceglie di rappresentare diversamente “Susanna ed i vecchioni”. Distruggendo il separé di piante immaginato dal Tintoretto, è offerta al pubblico l’immagine di una ragazza innocente, che non ha bisogno di nascondersi. Fa il bagno serena, prima che la sua castità sia disgustata dalle parole dei due approfittatori.

Allo stesso modo, l’omicidio di Oloferne, potente generale assiro, non può essere compiuto dalla sola Giuditta, che necessita l’aiuto materiale della sua ancella. In caso contrario, la sua astuzia non avrebbe potuto, isolata, vincere la fisicità generale. Ciò nondimeno, la coscienza critica della Gentileschi comprende che la sua pittura è un animale sospeso, che plana tra la tensione emotiva provocata dalla propria storia personale e la bellezza tecnico-allegorica delle sue opere. Secondo la tesi dell’inquisitore, dunque, nonostante l’ottica femminile sia al centro del quadro, questa non si ribella alla morale maschilista dominante, ma la sfrutta.

Per tale motivo, la scena dei vecchioni non vuole inneggiare alla castità di Susanna, ma provocare i più beceri e demoniaci istinti maschili. Nella tela, insieme ai due vecchi, vi sarebbe il corpo della stessa Artemisia, vittima, ma protagonista e diva del suo dolore. Allo stesso tempo, Giuditta non decapita Oloferne per il suo popolo, ma per mera vendetta e crudeltà. Rispetto all’immagine caravaggesca, la maggiore ferocia del quadro artemisiano non vuole gridare ad una rivendicazione paritaria. E’ il desiderio di crudeltà, che spinge le persone ad odiarsi fra loro, così come spinge Giuditta a traghettare la spada all'interno della giugulare, fin dentro il segreto corporeo. La testa dell'uomo, stavolta, non cade a terra, ma resta bloccata nel suo letto di morte, tra le mani della donna. Giuditta stringe la sua vittoria.

Nel mezzo dell’interrogatorio, la pittrice si abbandona ad un inarrestabile dubbio. Ciò che piace non è la sua arte, lei non è un’artigiana dei colori come il padre. Ciò che rende le sue opere speciali è una la lettura che il mondo maschilista ne dà. Lo spettacolo, così come l’interrogatorio, si chiude con tormento interiore, che non accetta unicità di vedute. Da un lato, Artemisia è la più grande vittima della società in cui vive. Obbligata poi a sposare il suo carnefice, in un inumano matrimonio riparatore. Dall’altro lato, c’è chi ritiene Gentileschi una manipolatrice, capace perfino di architettare un falso stupro. O ancora, costretta a dissimularlo dal padre e dalla tortura del tribunale dell’inquisizione, solo dopo la quale ammise il delitto.

Quale che ne sia lettura, le opere di Artemisia rappresentano uno dei più grandiosi tentativi di affermazione femminile nella storia dell’arte. Una donna del suo tempo, fiera, indipendente e consapevole. Senza necessariamente addivenire ad una opzione femminista, la Gentileschi ha ben presente il concetto di unione femminile e di ribellione. La necessità che ogni forma espressiva venga valutata in modo eguale, che la società non inibisca, né limiti nessuno dei suoi membri. Per farlo, la pittrice veste a volte i panni della vittima, altre volte della crudele carnefice, altre volte della dissimulatrice.

Forse, il messaggio più forte dello spettacolo è che Artemisia sia semplicemente una persona, una donna, capace di odiare, amare, conformarsi e violare. La sua è una ribellione silenziosa, una battaglia personale, che non ammette proseliti, ma insegna ai posteri il concetto di libertà. Per tale motivo, secondo il drammaturgo, la vera Artemisia è una tela bianca, che non può essere sporcata dalla nostra interpretazione, ma che è fedele solo a sé.

 

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