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Ermanno Rea e la Napoli mai riscattata

Scritto da Francesca Ciaramella Il . Inserito in Port'Alba

ermanno rea

Ermanno Rea è stato per quasi tutta la vita un napoletano sdradicato, come qualche amico l’ha bonariamente definito, la cui anima di scrittore non ha mai smesso di attraversare la città dalla “topografia proibita”, per citare l’unico dei suoi libri (Napoli Ferrovia) a cui intendo attingere in questo ingiustamente breve omaggio.

Il giornalista partenopeo è morto lo scorso 13 settembre a Roma all’età di 89 anni, con in cantiere ancora un ultimo e tragico saluto al luogo immortale delle sue memorie; la pubblicazione del testo dal titolo Nostalgia, era stata stabilita già tempo prima per il giorno 13 ottobre, esattamente un mese dopo la dipartita. La coincidenza temporale stride non poco, contribuendo a conferire a questo definitivo distacco dalla città natia quasi una scadenza sacrale e al tempo stesso espiatrice: con l’ultimo capitolo di una saga completamente dedicata a Napoli, Rea può finalmente saldare il suo debito geografico.

Nato e cresciuto tra la Sanità, l’appartamento in Via Foria n°8 e Piazza Principe Umberto, nel 1957 sottoscrisse definitivamente il suo allontanamento da quella complicata e bellissima metropoli che sarebbe tornata spesso a tormentare il suo sonno. Già precedentemente un episodio della gioventù era giunto come un presagio a mostrarne l’eventualità; infatti durante il conflitto mondiale il padre aveva portato via tutta la famiglia in un comodo rifugio in Toscana, per sfuggire al clima di terrore dei bombardamenti. Durante questo periodo Rea aveva conosciuto il sapore a tratti dolciastro e a tratti amaro dell’esperienza del napoletano costretto per necessità ad abbandonare il suo centro.

Ogni notizia autobiografica viene fedelmente riportata in Napoli Ferrovia, finalista del Premio Strega nel 2008, e terzo atto della rassegna partenopea iniziata con Mistero napoletano (1995) e proseguita con La dismissione (2002). Se i primi due si presentano come un’inchiesta diretta su esperienze altrui, l’ultimo appare più un doppio memoriale: le vicende dell’io narrante (ormai tornato a casa) si intrecciano con quelle del vero protagonista, Caracas, venezuelano d’origini e fuggito a Napoli con la madre da bambino.

Quando il narratore conosce per la prima volta il naziskin, quasi istantaneamente decide di affidargli una missione: dovrà guidarlo nei luoghi della Malanapoli, quelli oscuri e malfamati dei perdenti e dei vinti, perché è lì soltanto che egli può cogliere la verità. Fin da subito comprende che Caracas è una sorta di celebrità in questo regno: “Il suo centro operativo preferito era già allora l’area della Stazione Centrale: piazza Principe Umberto, via Carriera Grande, Porta Capuana, il Vasto, corso Garibaldi, borgo Sant’Antonio Abate, la Duchesca, dove non c’è notte senza un’ammuina, senza una cerimonia di sangue con tanto di strepiti e maledizioni”. Grazie al venezuelano ripercorre con doppio sguardo, quello del passato e del presente, i luoghi che lo hanno sempre attratto e disgustato insieme. La malinconica ricerca dell’uomo vetusto riesce a mescolarsi con la curiosità famelica del giornalista, che annota con minuzia e ricchezza di particolari le storie raccontate dalla sua insolita guida. La passione mai spenta di quest’ultimo per Rosa La Rosa, tossicodipendente irrecuperabile, sembra specchiarsi perfettamente nel sentimento incontrastato che lega lo scrittore alla sua città d’origine. Consapevole di essersi arreso di fronte alla drammaticità del camorristico e corrotto pulviscolo partenopeo negli anni della prima militanza comunista, Rea non smette di porre a Caracas e a sé stesso, domande e interrogativi laceranti sul destino napoletano di ieri e di oggi.

Sono purtroppo le risposte a profilarsi all’orizzonte, in un testo tanto accorato e allo stesso tempo distaccatamente lucido. Un’ammissione di colpa che sembra giungere solo nel finale, quasi a volere espiare il grande peccato di non aver, insieme agli amici sognatori di un tempo, riscattato Napoli.

 

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