Generazione Bataclan, un anno dopo.
13 Novembre 2016, Parigi si sveglia nel freddo dell’autunno ma anche del dolore, in una domenica di cordoglio, bagnata dalla Senna le cui acque scorrono impetuose poiché ricolme di lacrime ma anche di fratellanza, amore e speranza.
Si scoprono targhe e si elencano nomi: tante le persone uccise, soprattutto giovani e giovanissimi, quella tragica notte di un anno fa, al Bataclàn, il 12 novembre 2015. La Sera che ha sconvolto Parigi, l’11 settembre francese, la notte in cui il Je Suis Paris è divenuto l’urlo di dolore del mondo intero, non soltanto della Francia.
E sono soprattutto i giovani e giovanissimi, francesi e non, che sono accorsi a Parigi per commemorare quella immane tragedia. Presso il Canal de Saint-Martin, luogo di ritrovo cult della movida parigina, si sono accese migliaia di candele e migliaia di lanterne sono volate tra le nuvole; un modo per raggiungere le anime delle vittime innocenti dell’ennesima insensata strage; ma anche e soprattutto un modo per gridare al mondo intero che la vita riprende, che la Francia deve riprendersi, che l’odio non li avrà mai, non ci avrà mai.
Da quella tragica notte tutti i parigini hanno reagito. Certo, nelle primissime settimane e poi ancora per mesi, è stato arduo, quasi impossibile non vivere nel terrore. Quasi tutti conoscevano qualcuno che era al Bataclan o nei locali limitrofi quella sera e le strade ed i ristoranti erano inesorabilmente e costantemente deserti, ad ogni ora, ed ogni colpo, ogni rumore improvviso, scatenava paura, innescava terrore e rimembrava il dolore. Ma poi la voglia di voltare pagina, di non arrendersi, di non farsi prendere dal panico e dalla disperazione è divenuta sempre più tangibile, palpabile. Parigi usciva di nuovo dalle case, dai Canali della Senna, dai vicoli e dai Boulevard e le sale da concerto erano nuovamente stracolme, i ristoranti hanno ripreso a lavorare a pieno ritmo ed anche il Bataclàn è risorto dalle ceneri.
Un concerto di Sting ha inaugurato, nella notte tra sabato 12 e domenica 13, il ristrutturato Bataclàn. “Con la musica di Sting abbiamo dimostrato che la Francia è sempre in piedi”, ha spiegato Jerome Langlet, il proprietario del Bataclàn, contestualmente scoprendo una targa posta all'entrata della sala concerti, per ricordare le vittime di un teatro il cui nome, giovani residenti parigini, francesi e non, tra i 25 e i 35 anni, si sono trovati affibbiati: la generazione Bataclan, come titolò il giornale Libération.
Uno fra tutti, di questa generazione, è il 35enne francese Antoine Leiris, autore di un meraviglioso libro dal titolo “Non Avrete il Mio Odio”, una frase che scrisse sul suo profilo facebook a pochi giorni dalla notte del 13 novembre 2015. Al Bataclan morì Hélène, la donna della sua vita nonché madre di suo figlio che all’epoca aveva appena un anno e mezzo. Il libro fu scritto pochi mesi dopo. In esso, Antoine ha raccontato le ore immediatamente successive a quel fatidico venerdì, trascorse insieme a suo figlio, il piccolo Melvil, che si addormenta senza più un rumore fino alle prime luci di un’alba che stenta a tornare alle parvenze di una quotidianità stravolta per sempre.
Un libro che è dunque la struggente risposta con le armi della parola, della speranza e dell’amore non soltanto ad una tragedia a cui è difficile - se non praticamente impossibile - dare una spiegazione ma anche all’odio che nasce in ognuno di noi perché, come egli stesso ha spiegato: “Prima di tutto ho un figlio e spero che possa crescere felice, un bambino come tutti gli altri. L’odio e la collera impediscono al nostro cervello di avanzare, annullano la lucidità, che servirà a tutti noi vittime dirette ma anche a quelle indirettamente colpite da questa tragedia, viste le dure prove che ci attendono.”
Ciò che più colpisce al cuore e rileva di questa risposta d’arte e d’amore è che nel racconto di Antoine Leiris non c’è spazio per il terrorismo, per l’intolleranza ed il fondamentalismo che muove i terroristi: “Interessarmi a loro, alle loro vite, alle loro motivazioni, qualunque esse siano, vorrebbe dire lasciargli uno spazio nel mio cuore, che è dedicato soltanto ad Hélène. Ho dunque rifiutato di cedere alla debolezza, fin dal mattino dopo aver cercato mia moglie dappertutto; ho rifiutato di lasciare a qualcuno il mio piccolo Melvil, perché sarebbe stato troppo duro, affrontando il dolore tutto solo. Mi sono detto che, se l’avessi fatto subito quel giorno, allora sarebbe successo altre volte. La nostra era ormai una vita a due e se non l’avessi presa in mano subito rischiavo di non farlo mai più”.
Questo il modo di Antonine Leiris di riprendersi la propria vita, uno solo uno dei tanti altri modi che la generazione Bataclàn ha utilizzato per scrollarsi di dosso questa terribile definizione e la paura e l’odio che ne conseguono. Quella generazione oggi, ad un anno di distanza, non ha alcuna voglia di arrendersi. E canta ancora, scrive libri, dipinge, danza, assiste ai concerti, si diverte ma sa anche rimboccarsi le maniche e tornare a lavoro, guidati dalla voglia di musica, di arte, di gioia, di speranza, ma soprattutto di vita.