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Il mediterraneo non è un mare, ma un'opportunità

Scritto da Dalia Casula Il . Inserito in Napoli IN & OUT

ArteErta mediterraneo

Il Mediterraneo non è un mare, ma una successione di pianure liquide comunicanti per mezzo di porte più o meno larghe. Nei due grandi bacini orientale ed occidentale si individuano tutta una se-rie di mari stretti, di narrow- seas. Ciascuno di questi mondi particolari ha i propri caratteri, i più piccoli sono i più ricchi di significato.” F. Braudel

La penisola italiana prorompe al centro del Mare, quasi fosse un pontile tra i Paesi che si affacciano sulle sponde del Mediterraneo, tra Africa ed Europa, tra Est ed Ovest, la nostra storia tramanda la memoria delle quattro repubbliche marinare che illo tempore furono sovrane di queste acque. Tutta-via le alterne fortune ed il corso degli eventi hanno via via sottratto al Mediterraneo la centralità sua propria.

I repentini cambiamenti economici e sociali avvenuti dalla fine del “secolo breve”, hanno interessa-to sia i paesi più sviluppati, colpiti nel 2008 da una forte crisi economica, sia i paesi della fascia del Nord Africa, i quali attraversati dalle primavere arabe stanno ancora oggi ricercando nuovi equili-bri. La liquidità di queste trasformazioni, incide anche sulla rapidità e sui tempi del cambiamento.

Gli investimenti, l’economia e i capitali sono continuamente in movimento: la risposta degli Stati e della Comunità Europea ai bisogni che vanno delineandosi dovrebbe essere rapida e tempestiva, magari anche programmata nel lungo periodo, ciò che conta è che il tempo è denaro, dunque non sono ammesse repliche. Sebbene geograficamente l’ Italia giochi un ruolo rilevante nella politica commerciale europea dei traffici marittimi, così non è, nei fatti.

Il raddoppio del Canale di Suez, avvenuto in contemporanea rispetto a quello di Panama, ha attratto nel mare nostrum una notevole capacità ed esigenza di movimentazione delle merci, determinando un aumento del traffico di conteiner del 442% dal 2002, dovuto ai nuovi competitor, come la Cina. Le ragioni sono semplici: non solo l’Europa garantisce stabilità nello scenario traballante, ma tutti i porti del Mediterraneo consentono alle navi di effettuare un a moltitudine di operazioni commercia-li, oltre al mero strasporto merci dall’Asia verso le Americhe, come avviene mediante il Canale di Panama.

In questo scenario di crescita e di oscillazioni tra certezze ed incertezze, la fotografia della World Trade Organazation (WTO) rispetto ai porti italiani è aberrante, sono posizionati rispettivamente al 50esimo e al 49esimo posto della classifica mondiale della competitività e logistica del sistema por-tuale, dopo di noi solo la Cina. Questo è dato induce una necessaria riflessione sulle prospettive, sui tempi tecnici, in relazione alla rapido mutamento delle esigenze di mercati. La riforma Delrio ridi-segnando l’assetto nazionale della portualità e della logistica ha intesto individuare punti di forza e debolezza del sistema italiano, ed al contempo proporre misure per il rilancio dell’ Italia nel Medi-terraneo. Purtroppo però la lentezza è un fattore endemico della nostra società, come l’obsolescenza e la perenne assenza di manutenzione ed innovazione: l’Autorità Portuale di Napoli ne è un esem-pio.

Dal recente 6^ rapporto della fondazione SRM intitolato “Le relazioni economiche tra l’Italia e il Mediterraneo”, presentato lo scorso 25 novembre al Banco di Napoli, in via Toledo, emergono dei dati e degli spunti di rilievo, che dovrebbero indurre consapevolezza.

La bilancia commerciale italiana ha segno positivo, +50 miliardi di euro nel 2016, ciò conferma che nonostante il nostro paese non goda di un virtuoso sistema portuale e logistico, il Made in Italy è richiesto all’estero, in particolare dai paesi del Golfo( GCC)e dai paesi del Mediterraneo Meridionale (Area Mena) : le quote di export verso questi i sono particolarmente rilevanti per un valore pari rispettivamente a 27,5 e 13,9 miliardi di euro, pari al 10% del totale.

Questo dato rileva poiché, nonostante le quote di mercato erose dai nuovi competitor come la Cina, che abbassano inevitabilmente i costi di produzione e di conseguenza il prezzo di vendita, la do-manda di prodotti italiani è in costante e strutturale aumento. Come ha ben specificato Paolo Scu-dieri, Presidente di SRM i nostri prodotti non sono sostitutivi, “l’Italia è culla di creatività, di fan-tasia ed idee, il suo know how è centrale, nel processo di crescita”, i beni sono chiesto a prescinde-re dal prezzo.

All’aumento di domanda, si contrappone l’offerta ancora insufficiente offerta, da questo gap il grande potenziale per le nostre imprese.

Questi rilievi dovrebbero essere un fattore di stimolo per favorire il processo dell’internazionalizzazione delle imprese, spesso, di dimensioni troppo piccole specie nel Mezzo-giorno, non competitive sui mercati internazionali, incapaci dunque di essere propositive trainanti.

Da questa debolezza strutturale, sottolineata ripetutamente dal rapporto Svimez 2016, e da quelli degli anni precedenti, la crescente necessità di un incontro tra sistema imprenditoriale e servizi of-ferti, il bisogno che questo legame prorompa nelle regioni meridionali- comunque leader nell’Abbigliamento, nell’Aeremotive, e nell’Agroalimentare, “tre A”che già concorrono in misura pari e talvolta superiore al 20 % alla produzione di beni destinati all’estero,- affinché i processi già complessi siano completi, e possano, essere strumento di competitività.

L’Italia avrebbe potuto cogliere l’occasione anni fa.

Oggi il tempo è poco. Il consolidamento del sistema portuale dei paesi dell’area Mena, la rapida creazione di ZES (Zone Economiche Speciali) mediante la localizzazione di poli produttivi o me-ramente logistici, l’acquisizione del porto del Pireo da investitori cinesi, il possibile rafforzamento della “via della seta” Pechino e Berlino, continuamente impediscono all’Italia, con i suoi porti, del sud di essere Steakolder.

Il cambiamento c’è ma è relativo, “non possiamo pretendere che le cose cambino se continuiamo a fare le stesse cose” –A.H.