Post verità e bufale: perché vengono create (e condivise) notizie false?
L’informazione, negli ultimi 60 anni, ha subito un incremento esponenziale grazie alla nascita di veicoli di trasmissione globali: in primis la radio, poi la televisione, fino ad arrivare ad internet. In particolare, la piattaforma più diffusa in Italia ed in Europa, ossia Facebook, conta quasi due miliardi di iscritti. Si nota subito quanto sia facile raggiungere un numero spropositato di persone tramite la pubblicazione di un post. I dati parlano chiaro: il 40% degli italiani, negli ultimi tre anni (2013-2016), si è informata sui social network, condividendo la bellezza di un milione di articoli (Dati “La Stampa” 2016).
Possiamo affermare senza alcun dubbio di vivere nell’epoca della “Post Truth”, dove la circolazione di notizie è pressoché smaterializzata e inserita in rete. La bellezza e l’enorme utilità sociale di un database praticamente infinito di informazioni viene però immediatamente ridimensionata, paradossalmente, dal suo punto di forza: l’accessibilità da parte di chiunque disponga di un computer. Un tema davvero recente è proprio il sistema di tutela circa le notizie “bufala”, le famose notizie inventate le quali circolano in rete. Queste notizie, frutto di un’eccentrica fantasia dello scrittore o figlie della disinformazione, vanno a mescolarsi tra i tanti post reali, creando confusione fra i lettori. Sorge qui spontanea una domanda: come fa il lettore a non accorgersi della palese disinformazione della notizia pubblicata?
Lasciamo parlare i dati: in Italia, il tasso di “Analfabetismo Funzionale” (ossia l’incapacità di un soggetto di comprendere o riassumere un testo, di sottolineare i punti chiave di un racconto o semplicemente la non comprensione di frasi scritte nella propria lingua), è davvero spaventoso: il 47% degli italiani non è in grado di distinguere, per esempio, una notizia falsa da una vera (Wikipedia, campioni dati su soggetti dai 16 ai 65 anni, 2010).
Sostanzialmente, un italiano su due non sa distinguere una bufala da una notizia vera. Un italiano su due, potenzialmente, potrebbe condividere una notizia del genere. Potenzialmente, infine, un italiano su due crea disinformazione. Risolto il problema della figura di colui che pubblica una notizia falsa, passiamo adesso al più grande problema da analizzare: chi è effettivamente che pubblica queste notizie?
La prima categoria di persone può rientrare nel gruppo dei “Satiri”: soggetti i quali pubblicano in modo goliardico notizie false per ironizzare sul fenomeno. Fin qui, nessun problema.
La seconda categoria di “bufalari” è quella più importante: i creatori VOLONTARI di notizie false. Questi soggetti, solitamente rientrano nel restante 53% di italiani, in quanto la pubblicazione di notizie false è effettuata in modo volontario, ma con una differenza rispetto ai “Satiri”: i bufalari sfruttano il famoso sistema del “Clickbaiting”, cioè un metodo di guadagno che funziona sul numero di visualizzazioni e condivisioni effettuate. Il metodo è semplice: si prende una notizia, la si modifica arbitrariamente aggiungendo espedienti popolari, quali immigrazione, violenza, guerra, casta politica e quant’altro, in modo tale da avere più mordente sul pubblico; a questo punto si aspetta: appena arrivano le prime visualizzazioni e condivisioni, scatta il guadagno del bufalaro grazie alle svariate pubblicità che si aprono sul sito cliccato. Nel 2015, un noto sito di bufale,”Catena Umana”, ha affermato che con una notizia falsa riguardante due ragazze italiane rapite in Siria, ha ottenuto un guadagno giornaliero di circa 2000€ (notizia fra l’altro condivisa dal senatore Maurizio Gasparri).
Di per sé la notizia falsa è facilmente smontabile: ci si rende quasi subito conto dell’incongruità di quanto scritto nella notizia rispetto alla realtà dei fatti. Il problema sta però nel forte risentimento sociale che la notizia bufala possiede: l’indignazione nei confronti di un profugo, il quale dorme in un albergo a 4 stelle (per carità, notizia falsa), risulta molto più di impatto rispetto alla realtà delle cose, ossia la permanenza nel centro di accoglienza in condizioni disumane.
La mentalità è sempre la stessa: la notizia va condivisa non tanto perché vera, ma piuttosto perché “potrebbe esserlo, e di conseguenza va condivisa”. Viviamo in un’epoca davvero fortunata: disponiamo di qualunque mezzo di informazione e di comunicazione: possiamo far viaggiare notizie alla velocità della luce, sapendo in un batter d’occhio cosa accade dall’altra parte del mondo. Una riflessione però sorge spontanea: è più importante assumere un post come verità, oppure accertare la verità e postarla? Il leitmotiv del nuovo millennio sarà proprio questo.
Infine, vorrei esortare all’informazione, quella pura, quella fatta di dati certi e di prove tangibili: citando una famosa pagina Facebook, Bufale.net, che di lavoro smonta proprio le famose bufale, potremmo ragionare in questo modo: supponiamo che sia appena stata pubblicata su Facebook, o su un altro social, una notizia falsa riguardante uno stupro, un furto, o un altro qualunque atto illegale. Perfetto. Supponiamo adesso che, assieme alla notizia, circoli una foto del “presunto” ladro, stupratore, etc… Supponiamo, infine, che la foto sia di una persona a noi cara, se non proprio la nostra, dato che sui social è semplicissimo “prendere in prestito” l’identità di un’altra persona. Noi sappiamo benissimo che quella persona sia un cittadino onesto, per bene, ma soprattutto che non sia l’autore di questi delitti sopra citati. Benissimo, in 3 semplici mosse abbiamo distrutto la vita ad un povero innocente, il quale, oltre a rischiare conseguenze lavorative, rischia seriamente di subire ripercussioni sulla propria salute, semmai qualche “lettore” lo riconosca per strada.
L’informazione, quella vera, è fatta di certezze.