La ragazza americana che scoprì Napoli
Un libro che noi napoletani dovremmo leggere e rifletterci sopra, è La moglie americana, editore Piemme Voci, Milano, 2017 (euro 18,50). E' stato scritto da una giovane signora, Katherine Wilson, nata negli Stati Uniti, laureata a Princeton, una delle più prestigiose università americane, che ha avuto la fortuna di vincere venti anni fa una borsa di studio in discipline sociali e per svolgere il suo lavoro di stagista fu assegnata al Consolato statunitense di Napoli, collaborando all'Ufficio politico consolare.
La Wilson dichiara fin dalle prime pagine del libro la sua ammirazione per la nostra città trasformando il detto «Vedi Napoli e poi muori» in una dichiarazione d'affetto: «ho visto Napoli e ho cominciato a vivere».
Leggete questo diario di una bella esperienza durata fino ad oggi: una volta concluso il suo stage al Consolato, Katherine ritornò negli Stati Uniti, si trasferì poi ancora in Italia per conseguire un'altra laurea a Bologna, approdò di nuovo a Napoli e infine sposò un giovane di buona famiglia napoletana, un matrimonio felice, col marito e due bambini, un maschietto e una femminuccia. La famigliola ora vive a Roma ma sono ancora forti e attivi i legami con la nostra città grazie soprattutto alla famiglia del marito, specie all'infaticabile suocera, che giustifica e ravviva i viaggi dalla Capitale a Napoli e ritorno.
Il libro della Wilson racconta l'incontro e la convivenza di due culture, due civiltà, quella americana e quella italiana, anzi quella dei napoletani. Non è stato un incontro facile ma nella convivenza nessuna componente prevale sull'altra.
Il cibo cucinato secondo le ricette della tradizione napoletana (pasta e fagioli, ragù, insalata di polpo, sartù e via deliziando), un cibo gustato con calma e in compagnia, è servito alla Wilson per riconciliarsi col suo corpo: le ha consentito di non ingurgitare più gli alimenti disordinatamente, di perdere peso nonostante il rispetto del rito locale dei tre pasti al giorno (colazione, pranzo e cena).
Il rigore dell'educazione ricevuta in una famiglia protestante (la verità si dice sempre, non si nasconde né si annacqua con le piccole bugie; la responsabilità individuale non la puoi nascondere dietro l'irresponsabilità collettiva) permette a Katherine di mantenere le distanze dai vizi di noi napoletani. Ma le permette pure di apprezzare la vitalità e l'ottimismo della nostra popolazione, la nostra capacità di sdrammatizzare, che ci permette di mettere da parte gli inconvenienti dell'esistenza (la povertà unita alla puzza dell'immondizia, condita con la corruzione e l'ingiustizia), ciò che ci induce a sorridere e a cantare (pagina 142).
Esemplare della natura compassionevole della Wilson, della solidarietà e della comprensione dei nostri affanni, mi è apparso il racconto che lei fa della sua visita alla futura suocera ricoverata in un noto ospedale napoletano per essere curata della salmonellosa contratta mangiando i frutti di mare durante il ricevimento di un matrimonio (pagine 126-133).
Il disordine, l'approssimazione, la negligenza con cui gli ammalati sono trattati nell'ospedale da medici e infermieri inducono i degenti e i loro familiari a lottare, dissentire, mettere in discussione e diffidare delle cure sanitarie proposte.
Katherine conclude dicendo che "per vivere a Napoli bisogna stare sempre sul chi va là, avere mille occhi e imparare a difendere se stessi e i propri cari. Se non lo fai o non puoi farlo, è un brutto segno. Potrebbe perfino voler dire che sei troppo malato per andare in ospedale."
Sono passati quasi venti anni e questa amara osservazione purtroppo è ancora valida per buona parte delle nostre strutture sanitarie. Si salvano le eccellenze, medici e infermieri all'avanguardia della ricerca e delle cure, che fanno il loro lavoro con competenza e dedizione.
Mariano D'Antonio, economista