Una Bambina (parte 1)
Era minuta, con lunghi capelli neri talvolta raccolti in trecce, occhi nerissimi ombreggiati da lunghe ciglia scure. Vestiva di solito un abitino di cotonina che le giungeva ai polpacci, come voleva il pudore della fine degli anni ’10.
Sempre coperto da un grigio grembiulino. Gambette sottili, senza calze, i piedi in scarpette a stivaletto informi e riaccomodate tante volte. Il colorito brunastro accentuava il pallore che veniva da una abituale sotto alimentazione. Era orfana. Suo padre era morto giovane avvelenato dalle esalazioni delle fusioni di bronzo alle quali lavorava. Sua madre era rimasta così: vedova, giovane e con cinque figli di cui lei era la seconda. I due maschietti erano gli ultimi. Il salario di guantaia della mamma non bastava a mantenere una famiglia di sei persone nonostante la povera donna si ammazzasse di lavoro. I fratelli erano ancora troppo piccoli per andare a garzone.
La madre fu costretta a mandare a lavorare lei e la sorella maggiore. Che con i loro dieci undici anni erano già carne da lavoro, come a Napoli era normale in quei tempi.
La guerra era finita da poco e l’Italia era percorsa da forti tensioni sociali.. Il suffragio universale recente. Il quartier Stella era un quartiere “rosso” che eleggeva regolarmente il socialista Ciccotti. Il povero Chianese veniva regolarmente sconfitto. Le campagne elettorali erano una specie di festa per i bambini per i cortei ed i comizi ai quali partecipavano. Le bambine sempre con un garofano rosso nei capelli o sul petto. I monelli giravano per il quartiere sfottendo il povero Chianese cantando:
E’muorto Chianese
E ‘a mugliera comme fa?
Se mette ‘scigna ‘mbraccio
E va cercanno a carità!
Il destino delle bambine del rione Stella era quello di andare dalla “maestra” per lo più nel settore dei guanti in cui erano un anello importante del processo produttivo perché incaricate di portare in giro i pezzi dei guanti secondo le varie fasi della lavorazione da un laboratorio all’altro.
La produzione era parcellizzata. Ogni gruppo eseguiva una fase della lavorazione. Tutto poi veniva montato ed affidato per la finitura alle “apparecchiatrici”.
Il passaggio più difficile era il montaggio del pollice che era affidato alle più esperte, come sua madre. Una volta dovette seguire il principale negli USA per mostrare a clienti importanti tutta la tecnica che c’era dietro un prodotto artigianale di prestigio come il guanto napoletano. Da quella esperienza la povera donna tornò sconvolta perché la sua ignoranza della lingua aveva generato parecchi equivoci che la lasciarono scandalizzata su una supposta libertà di linguaggio degli americani.
Le pelli di capretto venivano dalla Turchia. I mercati di elezione erano gli USA e l’Inghilterra.
Lei era una delle numerose bambine che correvano qua e là per la città curandole consegne. Un giorno lei doveva andare alla Galleria Umberto al Museo per consegnare dei guanti finiti.
Aveva agli orecchi un paio di orecchini, due “tuppetelle” minuscole, regalo di un lontano onomastico e di cui era orgogliosa. Sotto i portici della Galleria un uomo cominciò a seguirla dicendole: ‘Fermati, picceré! T’aggi’a dicere ‘na cosa - Lei si spaventò ricordandole parole della mamma: Non ti fermare se un uomo te lo chiede!’
Cominciò a correre ma il grosso paniere con i guanti le era di impiccio. L’uomo la raggiunse, afferrò le “tuppetelle” e strappò lacerandole i lobi delle orecchie.. Il dolore, lo spavento, il sangue che le lordava il vestitino la fecero svenire. Alle grida le commesse del guantaio uscirono dal negozio e corsero in suo aiuto. Ci volle molto tempo per farla riprendere perché lei ebbe il suo primo attacco di epilessia, male che l’avrebbe accompagnata fino alla maturità. Le cicatrici ai lobi le restarono per sempre a ricordo della disavventura .
I momenti di gioco erano pochi. La sera, dopo il lavoro, sedeva sul gradino fuori del basso con la sorella maggiore a chiacchierare mentre badavano ai fratellini perché la mamma profittava della loro presenza per finire qualche partita di guanti libera da incombenze domestiche.
Spesso il solo tempo veramente libero era la domenica mattina. Allora poteva unirsi alle bambine del vicolo per giocare alla “semmana” o saltare alla corda.
Come tutte le sue coetanee dei quartieri poveri era andata a scuola fino alla terza elementare. Leggeva a stento e a stento faceva la sua firma, con i numeri se la cavava un po’ meglio. La cultura dei vicoli riteneva superflua l’istruzione delle bambine-
-C’ann’a fa cu stu leggere e scrivere? Tanto s’ann’a spusà!.
Questa era l’idea.
Un canto popolare siciliano che parlava di una mamma in attesa le faceva dire :
“Si è masculiddu lu manno a la scola; Si è fimminedda cuazetta me fa!”
Se è maschietto lo mando a scuola, se è femminuccia le insegno a fare la calza!
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