fbpx

Tra storia e crisi: l’industria a Napoli.

Scritto da Gianni De Falco Il . Inserito in Succede a Napoli

De falco fabbrica

Prima dello scoppio della seconda guerra mondiale a Napoli e provincia è presente il nucleo industriale più importante del Mezzogiorno ed il quarto del paese, anche se lontano dai livelli del triangolo Torino, Genova, Milano. Grandi sono però, rispetto al Nord, i danni di guerra causati dai bombardamenti alleati e dai guastatori tedeschi nella seconda metà del settembre 1943.


Al momento della ripresa produttiva l’industria meccanica ha tre quarti degli occupati in meno, il porto è totalmente distrutto, come gli altiforni dell’Ilva di Bagnoli; in difficoltà estrema sono anche le tradizionali industrie della pasta e delle conserve alimentari. La SME può assicurare solo la metà della produzione elettrica.
Alla fine degli anni Quaranta la ripresa è favorita dagli aiuti del Piano Marshall, da agevolazioni fiscali, dalla riorganizzazione dell’IRI e dalla nascita della Finmeccanica. Prendono corpo sei aree industriali. I settori principali sono l’elettrico, il metalmeccanico e metallurgico, il tessile, quello chimico e quelli tradizionali dei molini e pastifici e della concia - guanti - scarpe.
Secondo il primo censimento dell’Italia repubblicana (1951), Napoli è la prima realtà industriale del sud; ma solo il 5,6% della popolazione provinciale lavora nell’industria contro il 25% di Milano, il 23% di Torino e il 14% di Genova.
Nel decennio successivo anche la provincia di Napoli partecipa al miracolo economico italiano, ma con molte incertezze e ancor gravi problemi. Non l’aiuta, inizialmente, la Cassa del Mezzogiorno (1950) che punta su infrastrutture e agricoltura.
Nascono una quindicina di importanti nuove fabbriche (tra cui la Cementir a Coroglio, l’Italtubi e la Lepetit a Torre Annunziata, la Rodhiatoce a Casoria, la Microlamba a Baia), ma altre sono in difficoltà, talvolta per sovrapproduzione; nel siderurgico e nel meccanico spesso manca il coordinamento tra le produzioni. Tuttavia l’industria pesante si avvantaggia dell’azione della Finmeccanica che acquisisce molte fabbriche di Castellammare, Napoli, Pozzuoli e Pomigliano, mentre intervengono anche le grandi aziende private settentrionali: la Fiat, con un piccolo stabilimento a Napoli, e soprattutto la Olivetti a Pozzuoli.
Un importante ruolo viene svolto dalla Sezione credito industriale del Banco di Napoli, per trasformazioni e ammodernamenti, e dall’Isveimer, per nuovi impianti: nel complesso tra il 1947 e il 1957 i prestiti erogati dai due istituti sfiorano i 40 miliardi di lire. Comunque resta pressoché inalterato il grande divario con il Nord.
Rimane il problema della mancanza di un vasto tessuto di imprese di medie dimensioni e di una integrazione tra l’apparato industriale avanzato e quello tradizionale. Inoltre, l’industria napoletana è troppo pubblica, assistita, fuori mercato. Imposte, servizi insufficienti, arretratezza dell’ambiente sociale, lentezza della burocrazia scoraggiano gli imprenditori privati a investire nel napoletano, mentre le banche di credito ordinario preferiscono finanziare solo le grandi industrie (ieri come oggi!).
Nonostante questi problemi, dal censimento industriale del 1961 viene fuori un forte incremento della forza lavoro e delle unità produttive; è aumentato il coefficiente di industrializzazione, che però resta ancora molto lontano da quelli di Milano, Torino e Genova.
Con l’azienda pilota di Pozzuoli, inaugurata nel 1955, sembra concretizzarsi anche nel territorio napoletano il sogno di Adriano Olivetti di una fabbrica modello, progettata a “misura d’uomo” ove sia finalmente assicurata dignità culturale e civile al lavoro manuale. Durerà pochi anni.
Negli anni Sessanta l’industria di Napoli e provincia continua a presentare un quadro tra luci e ombre, in cui a momenti di crisi, a settori e singole fabbriche in difficoltà si accompagnano fasi espansive, nuovi impianti, importanti ampliamenti e ristrutturazioni.
Il triennio 1962-64 è problematico per tutto il Paese, a causa del rialzo dei prezzi, del maggior costo della manodopera, delle minori commesse statali, delle restrizioni creditizie, dell’aumento della concorrenza estera, della crisi del mercato interno.
Da qui vari episodi che annunciano la progressiva deindustrializzazione con la perdita di 24.000 posti di lavoro e un notevole ricorso alla Cassa integrazione.
In questo periodo si verifica anche un brusco arresto dell’attività edilizia e un notevole ridimensionamento dei finanziamenti Isveimer.
Eppure nel frattempo nasce l’Italsider (gruppo IRI), che rileva e rilancia l’antico stabilimento Ilva di Bagnoli (che già produce un milione di tonnellate di acciaio e 600.000 tonnellate di laminati).
Ne scaturisce un notevole incremento produttivo, una maggiore automazione, ma anche problemi di smercio e di forte inquinamento. Collegati all’Italsider, e in espansione, sono alcuni stabilimenti siderurgici minori di Torre Annunziata (Dalmine, Deriver).
Nuove fabbriche, di medie dimensioni, con in genere 2-300 operai, vengono fondate dall’industria settentrionale (Ignis sud, Pirelli) o dalle multinazionali (Alsco Malugani, Ciba-Geigy, Richarson-Merrrel, Knorr, Pepsi Cola, Unilever, Fag, e altre) attirate dagli incentivi e dalla politica della Cassa del Mezzogiorno, dalla manodopera a basso costo, dall’espansione del mercato italiano.
Nella seconda metà del decennio l’Isveimer riprende ad erogare crediti a tutto spiano (superando quelli del biennio già alto 1962-63). In affanno sono però i settori tradizionali (calzature, guanti, mobili, conserve, pasta), che subiscono la concorrenza settentrionale: molte piccole fabbriche e ditte artigiane chiudono. La crisi dei settori tradizionali comporta una diminuzione del peso dell’imprenditoria indigena e il notevole aumento della disoccupazione.
Frattanto, dal 1964, l’industria italiana, privata o pubblica, riprende la sua corsa e si acuisce il divario con il Sud. L’economia napoletana sopravvive ad un certo livello solo grazie ai lavori pubblici, all’edilizia e alle partecipazioni statali, basati per lo più su interventi isolati, senza un’efficiente programmazione.
Per dare una risposta a questi problemi cerca di fare la sua parte anche l’Amministrazione Provinciale: dalla sua iniziativa scaturisce, nel 1964, il Consorzio per l’area di sviluppo industriale di Napoli (ASI), a cui aderiscono anche la Camera di Commercio, il Comune di Napoli, il Banco di Napoli, l’Isveimer, l’IRI e l’Unione industriali. Il nuovo ente si propone la rinascita economica e sociale della provincia, attraverso la redazione del piano regolatore dell’area di sviluppo industriale e la realizzazione delle infrastrutture necessarie (strade, ferrovie, allacciamenti fognari, approvvigionamento di acqua ed energia elettrica).
Una risposta importante viene qualche anno dopo dalla creazione a Pomigliano d’Arco dello stabilimento automobilistico Alfasud: progettato già dal 1966, lo stabilimento viene costruito dal 1968 e inizia la produzione qualche anno dopo; oltre 6.000 gli addetti, tra dirigenti, tecnici e operai.
Dopo la nascita dell’Alfasud, l’industria privata italiana investe a Napoli e provincia, attratta dalle agevolazioni fiscali, dalla minore sindacalizzazione della classe operaia. Dal canto suo la Finmeccanica fonda nel 1969 la Aeritalia e nel 1970 l’Italtrafo, che produce motori elettrici. Tutto il settore metalmeccanico cresce, grazie anche a Ilva e Dalmine: tra il 1969 e il 1972 si passa da 18.000 a 33.000 occupati.
Tuttavia continua la crisi dell’industria conserviera, molitoria e pastaria, i cui addetti, al contrario, si dimezzano. In crisi sono anche i settori tessile (le MCM chiudono i due grandi stabilimenti di Poggioreale) e dell’abbigliamento. Ciò provoca un crollo del reddito prodotto dal settore industriale, che passa, nella provincia di Napoli, dal 37,1% del 1961 al 29,8% del 1971. Inoltre permane il problema del ridotto numero di aziende medio-piccole rispetto alle grandi aziende, soprattutto pubbliche. A questa già difficile situazione si aggiunge nell’ottobre 1973 la crisi energetica, che spazza via quel poco che restava dell’industria tradizionale, manda in crisi Italsider e Alfasud, spinge le multinazionali estere a chiudere le fabbriche. Dopo la crisi energetica l’industria della provincia di Napoli stenta a riprendersi. Moltissimi sono i posti di lavoro persi ed esteso è il ricorso alla Cassa integrazione.
Negli anni successivi fanno registrare un certo progresso i settori della costruzione dei mezzi di trasporto (costituito da una serie di piccole e medie unità di produzione al servizio soprattutto degli stabilimenti Alfa Romeo ed Aeritalia di Pomigliano d’Arco), quello delle pelli e del cuoio e quello poligrafico. Tutti gli altri comparti manifatturieri – anche quello metalmeccanico, che resta quello di maggiori proporzioni – sono in calo e concorrono in modo più o meno vistoso all’era della deindustrializzazione.
Negli anni Ottanta la situazione non migliora. Anzi le aziende che scompaiono sono alcune centinaia, mentre di nuove ne vengono fondate solo poche decine. Inoltre permane il vecchio problema della prevalenza assoluta delle imprese di piccola o di grande dimensione (che è per lo più in mano alle partecipazioni statali), mentre mancano pressoché del tutto quelle medie che altrove costituiscono il nocciolo duro dell’industria. Sono in crisi anche settori ancora floridi nel decennio precedente, come calzature, cartotecnica, concia.
In tutta la provincia, accanto al processo di ridimensionamento del patrimonio produttivo, è in atto un processo di delocalizzazione: le fabbriche vanno via dalle aree industriali della città di Napoli e dai sette comuni della fascia costiera più industrializzati (Bacoli, Pozzuoli, Portici, Ercolano, Torre del Greco, Torre Annunziata e Castellammare) e vengono installate nei comuni a nord della città, favoriti dalla vicinanza con le autostrade e dalla disponibilità di suoli a buon mercato.
In questa area sono localizzati la maggior parte degli agglomerati ASI (area di sviluppo industriale) sorti in questo periodo: Caivano, Acerra, Giugliano - Qualiano, Casoria – Arzano - Frattamaggiore.
Quest’ultima area svolge un ruolo centrale: alla fine degli anni Ottanta contiene quasi trecento unità produttive con almeno 10 dipendenti. Le altre aree ASI della provincia sono verso est (Pomigliano d’Arco e Nola-Marigliano). L’unica che include antiche zone di industrializzazione è quella della Foce del Sarno, che riguarda Torre Annunziata, Castellammare e Gragnano, ma anche Sant’Antonio Abate, cittadina leader nella produzione di conserve di pomodoro.
I settori prevalenti di tutta la provincia sono il meccanico, l’alimentare, il chimico, la produzione dei mezzi di trasporto e soprattutto delle scarpe e dell’abbigliamento.
Un importante settore innovativo è poi rappresentato dal polo aeronautico, costituito dall’Alenia (sua punta di diamante), dall’Alfa Avio di Pomigliano, dalla Magnaghi di Napoli (sistemi di atterraggio), e dalla Partenavia di Casoria (veicoli leggeri). Alla fine degli anni Ottanta vi lavorano 11.000 addetti nei 5 stabilimenti leader, dove si conseguono ottimi risultati nella ricerca, nella modernizzazione e nella formazione. Il comparto è completato da una trentina di aziende medio-piccole legate da contratti di fornitura, dove sono occupati 2.000 lavoratori e da un’articolata galassia di piccole e piccolissime unità produttive, che si pongono come subfornitori o produttori di servizi collaterali.
Sono trascorsi ormai circa due secoli dai primi insediamenti dell'industria a Napoli. Una lunghissima storia segnata da primati, da grandi successi tecnici, lotte e conquiste civili, ma anche da contraddizioni, sconfitte, periodi di crisi e di decadenza. Il lavoro prodotto in un così lungo arco di tempo ha consentito di acquisire un patrimonio ricchissimo di conoscenze e competenze tecniche, assegnando alla città, nell'era della grande avanzata dell'industria, il ruolo di terza città industriale d'Italia, al centro di un'area ricca di forti fermenti produttivi. Purtroppo a questi risultati non ha ancora corrisposto una compiuta presa di coscienza, presso la classe politica e l'opinione pubblica, dei significati che lo sviluppo dell'industria ha avuto per Napoli e il suo hinterland.
Dagli anni novanta ad oggi le aziende scoprono una nuova frontiera: la qualità. I mercati sono ormai diventati globali. Neppure la piccola impresa può ignorare che il confronto è con tutti i concorrenti del mondo. Le aziende fanno leva su tutti i fattori per migliorare la loro competitività. Intanto si impone la new economy, l’economia che viaggia lungo la rete di Internet.
Oltre a tali aspetti bisogna, inoltre, tener conto che sono entrati prepotentemente nello scenario economico mondiale nuovi fattori e nuovi attori, quali la concorrenza dei cosiddetti “paesi emergenti”, ad esempio la Cina, oggi diventati potenze economiche di primissimo piano che riducono la quota internazionale dei prodotti made in Italy, la saturazione dei mercati, la delocalizzazione da costi.
In una realtà produttiva sempre più spinta verso la terziarizzazione, la conoscenza e i saperi diventano fondamentali ma a questi si aggiunge, come fattore di primaria importanza, l’ambiente di contesto, il sistema territoriale locale e quello economico.
La cesura epocale imposta dall'era postindustriale sembra condannare all'oblio il nuovo «progetto» produttivo dell'area metropolitana napoletana, né il vecchio riesce a sopravvivere alle nuove condizioni imposte dai mercati moderni.
Dunque il nuovo fenomeno che caratterizza il nostro territorio in questi anni è la “dismissione” industriale, la deindustrializzazione e la desertificazione, il ridimensionamento e la scomparsa di grandi imprese industriali (p.e. l’Italsider), l’apertura di grandi crisi di settore (metalmeccanico e chimico su tutti) che porta alla scomparsa anche delle medio-piccole imprese.
Il tessuto industriale napoletano del duemila si rappresenta con una miriade di piccole e piccolissime imprese che lavorano principalmente per conto terzi (quindi senza un proprio mercato), con una media di 3,5 – 4 addetti, incapaci di (ri)organizzare la propria capacità produttiva intorno ad imprese leaders. Troppo piccolo e frammentato, incapace di rinnovare i processi produttivi, incapace di investire capitali. Povero. Troppo povero.
Oggi il settore manifatturiero mostra una tendenza al declino determinata dal calo sia della quota del prodotto totale (la nostra bilancia dei pagamenti è negativa: importiamo molto, esportiamo poco o niente), sia del numero di addetti (negli ultimi venti anni -48,5%). È questa la ragione che determina la chiusura delle fabbriche e la difficoltà a crearne di nuove.
La tentazione è quella di considerare e trattare la storia e la cultura manifatturiera napoletana alla stregua della collina di Spoon River e, come abbiamo prima ricordato ed elencato, nomi e lapidi non mancano.
Tuttavia, questa situazione così negativa nasconde, nei meandri delle nuove imprese, che pure nascono (la nati-mortalità di impresa è infatti positiva), l’attenzione alla produzione di qualità, all’innovazione (se non dei processi almeno delle proprietà), che possono produrre piccoli fenomeni di “sopravvivenza” e “resistenza” capaci, in alcuni casi, di affermarsi come leaders stimolando processi di cooperazione (p.e. consorzi) che possono affermare la piccola e piccolissima impresa in aree di mercato alla stessa stregua delle medio-grandi imprese.
Il percorso è difficile e faticoso ma la nuova imprenditorialità che nasce rinnova, in termini di competenze e capacità, una antica cultura di impresa che per molti anni è mancata nella nostra città. Questo, tutto sommato, è un segno di speranza che va colto e coltivato con estremo interesse ma anche con molta pazienza, trattandosi di tempi e attese, purtroppo, non brevi.