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Apologia di Antigone: il valore della disobbedienza

Scritto da Clara Letizia Riccio Il . Inserito in Vac 'e Press

edipo antigone

“La forza dei grandi caratteri sta proprio nel fatto che essi non scelgono, ma interamente e per loro natura sono ciò che vogliono e che compiono.” (Friedrich Hegel)

Un inveterato, atavico, seppur ineluttabile antagonismo percorre le pagine di una delle tragedie più memorabili e sublimi che la storia dell’umanità abbia mai conosciuto: l’Antigone di Sofocle.

«Πολλὰ τὰ δεινὰ κοὐδὲν ἀνθρώπου δεινότερον πέλει»

«Molte sono le cose mirabili, ma nessuna è più mirabile dell’uomo.»

Il “deinos”, che inaugura il primo stasimo dell’opera, involge in sé al contempo il significato di “terribile” e “meraviglioso”, riversando magistralmente la sua essenza nella storia, il cui unico ed indiscutibile protagonista è proprio l’uomo, come afferma il filosofo Heidegger.

L’uomo, abile a forgiare le più ingegnose invenzioni, ad egemonizzare incontrastato sul mondo intero, ad ergersi, talvolta, anche come divinità, non è che una vetusta dimora di irrisolti conflitti. Egli sfiora le vette del “meraviglioso”, ed in lui allo stesso tempo si annidano i focolai del “terribile”, attecchendo ad un sempiterno dissidio. Ed è proprio lo stesso insoluto dissidio che si snoda tra Antigone e Creonte. Il βασιλεύς (re) di Tebe aveva promanato un editto, secondo il quale chi avrebbe dato sepoltura a coloro i quali avevano tradito la patria, sarebbe stato condannato a morte. L’eroina sofoclea disattende alacremente all’ordine del tiranno, seppellendo suo fratello Polinice, accusato di aver disonorato Tebe ed essendo morto in una lotta fratricida contro Eteocle.

Fin dalle prime battute della tragedia, Antigone e Creonte fanno entrambi appello al νόμος (legge), ma designano questo termine con un’accezione totalmente discordante. Antigone è portatrice del valore assoluto dei nomima, le leggi non scritte che da sempre signoreggiano sul mondo dei morti e dei vivi. Di fronte a θάνατος (Morte) gli uomini sono uguali gli uni agli altri, non affiorano distinzioni tra il colpevole e l’innocente, ognuno è titolare del diritto di essere sepolto. La Morte, agendo come una “livella”, è intrinsecamente giusta (δίκαια), parificando sotto ogni aspetto tutti gli esseri umani.

Colui il quale non riceve degna sepoltura è destinato a vagare eternamente tra l’Ade e Γῆ (la Terra). Ed è proprio per questo che Antigone, il cui nome significa “nata al posto di”, quasi a voler illustrare il suo peculiare dovere di sostituirsi sia alla madre Giocasta sia alla sorella Ismene, disobbedisce drasticamente, senza alcun tentennamento, alla disposizione di Creonte. Quest’ultimo, al contrario, incarna la dispotica autorevolezza della legge di Stato, seppur spietata, truce, efferata, anteponendo ad ogni cosa il benessere della pòlis: “Io disprezzo colui che antepone una persona cara (φίλος) alla sua patria.”

Antigone subisce con affranta rassegnazione le drammatiche conseguenze della sua scelta, uccidendosi ancor prima che il tiranno di Tebe imponga di eseguire la sua condanna a morte.

L’antitesi categorica e irrimediabile tra i due personaggi del dramma sofocleo non si attaglia soltanto sulla difformità della legge perseguita, ma trascende di gran lunga questa dimensione, adagiandosi anche sulle contrapposizioni tra figura femminile e figura maschile, tra gioventù ed anzianità. Antigone è la prima eroina, la prima donna che ardisce affermare le proprie ragioni contro un editto promulgato da un uomo, al contempo tiranno ed anziano, nonché suo zio materno.

Ella sovverte del tutto il consueto dettame, secondo il quale una giovane fanciulla sarebbe dovuta convolare a nozze e dedicare la sua intera esistenza al proprio sposo ed ai propri figli. Con lei, “l’ultima luce diffusa sull’estrema radice della casata di Edipo”, si estingue la stirpe dei Labdacidi. Persino lo stesso Creonte, sulla scorta delle parole dell’indovino Tiresia, alla fine ritorna sui suoi passi e, ravvedendosi, comprende di aver commesso un sacrilegio, trasgredendo quella che Luciano Canfora denominava “legge-natura”, sulla scia della corrente filosofica della Sofistica, che definiva la legge di Stato come una convenzione che non può categoricamente insorgere né tantomeno scardinare le norme divine.

Antigone non è altro che l’imperiosa raffigurazione dell’irriverente splendore dell’eresia, della temerarietà illuminata che persegue solo e soltanto il proprio diktat interiore, accettandone indiscutibilmente tutte le tragiche ripercussioni.

“Distolta a forza, io so

come temevi la morte, ma

ancora più ti faceva orrore la vita indegna.

E non fosti indulgente

in nulla verso i potenti, e non scendesti

a patti con gli intriganti, e non

dimenticasti mai l'ingiuria e sui loro

misfatti non crebbe mai l'erba.”

Scrive di lei Bertolt Brecht nel 1947. Antigone è l’eretica per eccellenza; in greco il lemma “eresia” (αἵρεσις) significa “scelta” ed ella non fa altro che scegliere consapevolmente, ribellarsi perentoriamente, glorificando l’abbagliante bellezza della disobbedienza. La disobbedienza è propriamente il punto di rottura con l’ingiustizia, è la salomonica elevazione dalla massa grigia e gregaria, seguace delle certezze; la disobbedienza è il germe del dubbio, dei costanti interrogativi. Essa annienta le obnubilanti sicurezze, induce al pensiero illuminante, inneggia alla rivoluzione, è caos creatore della vita.

«Alcuni fra noi, in una precedente esistenza, si sono innamorati di un’Antigone: ecco perché non troveranno mai completa soddisfazione in un legame mortale.»

(Percy Shelley)