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Dall’ Hindu Kush alle Alpi, il libro di Fawad e Raufi

Scritto da Luca Murolo Il . Inserito in Letteratura

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Un omaccione dalla folta barba nera, non è il primo profugo ad arrivare in Italia con un viaggio rocambolesco, e non sarà neanche l’ultimo. Fawad ha la fortuna di essere una persona colta, laureato a Kabul, scrive questo libro e ci racconta la sua epopea.

                                     

Con i mezzi più disparati, attraversando Iran, Turchia, Bulgaria e Serbia, ed inoltre la Germania, arriva infine in Italia, dove si è poi stabilito, trovando pace. Qui finalmente incontra gente caritatevole, e viene adottato da una famiglia, che gli da l’amore di cui, come ogni essere umano, ha bisogno.

Il viaggio non comincia nel migliore dei modi. Pur sborsando una cifra vicina ai diecimila dollari americani, viene sbattuto su dei pick-up, come un sacco di farina o di cemento. Ma c’è chi sta peggio di lui, ed addirittura si è dovuto accomodare sul tetto. Senza alcun appiglio o protezione, rischiando di cadere ad ogni buca o curva presa male. E ce ne sono lungo il percorso!                                                                                                   

Il tutto è reso più piccante dalla velocità folle che le auto devono mantenere, alle volte anche 140 all’ora; in ogni caso, sempre la massima velocità possibile, perché il pericolo non è l’incidente o l’uscire fuori strada, ma la miriade di trafficanti di tutti i generi, appostati lungo il percorso, che non domandano documenti, ma altro denaro. Ed alle volte, semplicemente sparano.    

WhatsApp Image 2020 02 20 at 20.11.49 1                                                                                                    

Sono per lo più desperados, trafficanti di droga quasi tutti, che popolano quella terra devastata dalle guerre, dove sono le bande armate, di qualsiasi credo politico o religioso, a dettar legge. Vede persone cadere Fawad, ma gli autisti, a fermarsi, non ci pensano proprio. E ringrazia di essere giovane e forte, e prega, perché è una persona buona e crede in Dio, anche se con una dottrina diversa dalla nostra, perché è Musulmano, ma soffre a sentirsi impotente di fronte a ciò che deve subire gente più debole di lui.                         

Vecchi, donne, bambini. Chi non ce la fa, viene abbandonato. Alla mercè dei peggiori banditi della regione; e non vuole neanche immaginare il destino di quei poveracci che cascano dall’auto, o che vengono lasciati indietro, perché non ce la fanno.

Non che per lui, benché giovane e forte, siano tutte rose e fiori. Anzi. Sia in Iran che in Turchia, la polizia li perseguita. Li arresta e li maltratta, senza ragione apparente. In realtà per dare un preciso segnale a chi, come del resto sta accadendo in Libia, con carceri più simili a lager disumani, che al concetto europeo di prigione: passare di qua, intraprendere questo viaggio, non è una passeggiata.

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La polizia resta un incubo, sempre ed ovunque. La minaccia continua è di essere arrestato, sbattuto in oscure galere, o, peggio, rimandato in una patria che non esiste più. Racconta di essere stato trattato umanamente, e qui abbatte qualcuno dei nostri luoghi comuni, solo in Serbia. Ma , finalmente, a Udine, in Italia, la sua Odissea ha fine.

Una storia, una storia con un protagonista, e forse per questo può coinvolgere di più un lettore. Uno spettatore. Una storia come ne sentiamo, e ne vediamo tante. Al telegiornale, quasi tutti i giorni. Una storia di disperati senza patria, o meglio, la cui patria è diventato un campo di battaglia o una zona depressa in seguito a grandi tragedie e calamità. A me colpisce particolarmente, perché parla di un paese un tempo magico, per posizione geografica e cultura, per la schietta e rude ospitalità del suo popolo: l’Afganistan.

Ho vissuto per sei anni in Africa, nella Repubblica di Maurizio, e lì uno dei miei migliori amici era un architetto afgano, Walid Y., scappato anche lui dal suo paese, in altri tempi, a costo di un’altra guerra. L’occupazione Russa, ma il mio amico mi parlava di un paese meraviglioso,dove regnava il benessere, e quando parlava di Kabul, gli brillavano gli occhi, un misto di commozione e ricordi di un posto che non esiste più. Questo paese, Fawad non lo ha mai visto. Lui è nato con i Talebani ed i terroristi, che mettevano bombe ovunque. Nei mercati, nelle scuole, nelle piazze; un paese dove, quando uscivi di casa, non sapevi se saresti mai tornato.                                                                                                                                                                                

Un paese in guerra da quarant’anni, dove anche noi abbiamo le nostre truppe.                                                                   

Perché?