Riders in corsa per il lavoro (seconda parte)
La seconda problematica è legata alla natura dell’atto e i suoi soggetti. Benché AssoDelivery abbia stipulato il contratto con una sigla sindacale, la UGL, va detto che questa, secondo il Ministero del Lavoro, non presenterebbe i criteri di rappresentatività fissati dalla legge. Ciò vuol dire che un solo sindacato non sarebbe sufficientemente rappresentativo della volontà dei lavoratori su scala nazionale. Ed è proprio questo che, a lungo, hanno ribadito tutti gli altri sindacati, in particolare, la CGIL.
La situazione sembra piuttosto semplice: da un lato ci sono i sindacati più noti che spingono per ottenere un contratto collettivo rigido, un rapporto di lavoro subordinato che offra tutele e certezze economiche ai lavoratori; dall’altro i Delivery, che sono soddisfatti dello status quo e sono sostenitori del lavoro autonomo. E riders? Non è facile dirlo. Una gran fetta di lavoratori, come spesso accade, appoggia la CGIL e spinge per una cristallizzazione dei contratti; molti desiderano ricevere il trattamento previsto dal lavoro subordinato: una retribuzione su base oraria e non a consegna, quindi maggiori tutele. Ma c’è anche chi teme che in questo modo si rischi di paralizzare il settore e allontanare le aziende dall’Italia.
I riders più giovani, gli studenti che scelgono di lavorare nel tempo libero e tutti coloro che hanno giù un’altra occupazione, chiedono proprio il contrario: mantenere la flessibilità tipica del settore. È questo il motivo per cui ci sono state delle vere e proprie contro-proteste e sono le motivazioni che hanno spinto, verso la fine del 2019, 500 riders a indirizzare una lettera al governo italiano in cui chiedevano di modificare il decreto Di Maio, che interveniva più o meno sulla stessa linea in materia e che, in quel momento, si discuteva al Senato. E non avevano tutti i torti: Aldo Bottini, presidente degli avvocati giuslavoristi italiani, ritiene problematico applicare la categoria della subordinazione al mondo del Delivery; un vestito che va stretto a questo modello di business, efficiente proprio grazie alla sua competitività, orizzontalità e flessibilità.
La verità è che questa ostinata ricerca di un rapporto di lavoro subordinato a tutti i costi, rischia di danneggiare i lavoratori stessi.
Adeguate tutele giuridiche si potrebbero – e si dovrebbero – ottenere anche con un rapporto di lavoro diverso, senza rinunciare alla liquidità del settore, imponendo orari fissi e uccidendo un business in crescita. Un esempio innovativo viene proprio da Just Eat che, in questi giorni, ha annunciato l’adozione di un contratto ibrido su modello SCOOBER, adottato già da altri paesi europei. Si tratterà, a tutti gli effetti, delle prime assunzioni di riders in Italia.
I contratti partiranno dalla Lombardia e dovrebbero garantire tutele come il compenso orario, le ferie, periodi di malattia, congedi parentali, indennità di lavoro notturno e festivi, oltre a coperture assicurative, dispositivi di sicurezza gratuiti e formazione del personale. Alla paga minima, sarà poi aggiunto un sistema di bonus legato al numero di consegne, cosa che manterrà inalterata la possibilità di pagare di più i dipendenti più produttivi. Il problema, però, è tutt’altro che risolto e, per molti, sindacati inclusi, non è abbastanza.
Sicuramente, è stato fatto un passo avanti verso una regolamentazione europea del settore, omogenea ma flessibile.
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