Cos’è veramente la critica cinematografica?
Quando si parla di critica cinematografica sorgono alla mente tantissime isole diverse di significato, tutte separate tra loro, ma che insieme formano straordinari arcipelaghi costituiti da tasselli terminologici come: trama, recensione, analisi ecc…
(adsbygoogle = window.adsbygoogle || []).push({});Ma le riflessioni e, a dire il vero, gli scontri tra dotti su che cosa sia veramente la critica cinematografica esplodono all’interno di una diatriba più generale, su larga scala, riguardo a cosa debba essere l’arte e, di conseguenza, il suo studio.
Negli anni Cinquanta, negli Stati Uniti, provoca serio sgomento, nell’élite intellettuale, l’ascesa della cultura di massa, giudicata pericolosamente colpevole di una deriva-spazzatura, artefice di una vera e propria “crisi universale della cultura”.
Il motivo per cui si gridava allo scandalo e gli animi dei sapienti si scaldavano risiede nel compito stesso che l’élite intellettuale si era dato, ovvero difendere a tutti i costi quel confine importantissimo tra la “high culture” e la “low culture”, la prima “elevata”, la seconda “popolare”.
Le cose iniziano a cambiare quando un numero sempre maggiore di intellettuali newyorkesi si lascia alle spalle le rigide gerarchie culturali, abbracciando la cultura di massa. Resta, però, duro a morire il dibattitto su cosa effettivamente significhi incarnare il ruolo di critico culturale, dunque, se un artefatto culturale – un film per esempio – possa essere valutato non solo in relazione alla qualità ma anche alla popolarità.
Una personalità decisiva e del tutto innovatrice è stata quella di Pauline Kael, figura emblematica della cultura americana, nata nel 1919 in California e morta il 3 settembre del 2001 in Massachusetts.
La Kael era un critico cinematografico a cui la parola “film” neanche piaceva. Le risultava fin troppo impegnato, saccente ed elitario. Preferiva di gran lunga il termine “movie”. Pauline Kael era in totale controtendenza rispetto al pensiero per cui i critici cinematografici dovevano essere praticamente ossessionati dalla qualità del prodotto, specialmente quello europeo, e comincia a elogiare sinceramente quei film dell’industria hollywoodiana, ripudiando, a tratti, il cinema d’essai.
A questo punto, verrebbe da chiedersi, quali sono, o possono essere, i criteri con cui giudicare un film. Cos’è che spinse la Kael ad apprezzare il popolare “Bonnie e Clyde” e a disdegnare alcuni film del raffinato Godard?
Un criterio è, certamente, l’emozione che si avverte quando ci si approccia a una pellicola. Ed è il criterio meno accademico di tutti, per cui non serve vedere e rivedere un film più volte, ma lasciarsi guidare, mentre si scrive una recensione, dal piacere, o il dispiacere, che si è provato al cinema durante la proiezione.
All’opposto, un altro criterio possibile è quello del distanziamento emotivo. È un criterio che, più che dar vita a una recensione, permette un’operazione di analisi. L’analista sottomette il film ai suoi strumenti, non si immerge completamente nella dimensione finzionale, ma controlla e cerca indizi, ascolta e osserva attentamente.
La differenza sostanziale sta proprio nel fatto che l’analisi di un film è cosa separata dalla critica cinematografica pura. Spesso, però, nel sentire comune le due cose si confondono diventando sinonimi. La critica ha un punto di vista soggettivo sul cinema, perciò ha molto più a che fare con il mondo immateriale delle emozioni, e si concretizza in un atto valutativo. L’analisi produce, invece, un discorso sul film che deve essere verificabile oggettivamente in termini di coerenza, chiaramente tenendo conto della soggettività umana dell’analista.
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