Da Platone al digitale
Platone, che potremmo definire un sociologo ante litteram, nella sua epoca si interrogava su una nuova tecnologia: la scrittura. Quella scrittura che, quasi prepotentemente, si era messa in testa di modificare, in maniera sostanziale, il mondo.
Lo stesso Platone faceva uso della scrittura ma aveva una posizione piuttosto critica nei confronti di questa. L’oralità, per lui, era autentica, mentre la scrittura nient’altro che un artificio. A ben vedere, una critica simile a quella volta da molti sociologi, oggi, nei confronti del digitale come nuova tecnologia.
Platone era cauto verso i rischi della scrittura. Infatti, nel “Fedro” afferma che la scrittura sia un farmacon: antidoto ma anche veleno.
Ma perché la scrittura veniva contemplata anche come veleno? Veleno per la memoria e per la conoscenza stessa. Perché le persone che scriveranno, pensava Platone, non eserciteranno più la memoria e, all’opposto, impareranno bene a dimenticare. Finché queste diranno di essere sapienti perché hanno letto delle cose, senza averle mai sperimentate, senza conoscerle davvero. Tra il mondo e la società si interporrà la pagina scritta.
Un’altra critica che veniva mossa alla scrittura era la seguente: la comunicazione scritta rotolerà nelle mani di chiunque, a differenza di un discorso orale. Anche chi non se ne intende leggerà, potendo stravolgere il senso. Gli abusi si moltiplicheranno.
È evidente che nacque un vero e proprio scontro ideologico sulla scrittura, concretizzatosi in lotta di potere tra chi credeva che il sapere potesse essere di tutti e chi lo voleva nelle mani di un’élite.
Da una parte, il controllo rigido sulla cultura, attraverso la selezione elitaria degli interlocutori, dall’altra, il flusso di comunicazione libero di andare nelle mani di tutti.
Oggi, il digitale, come la scrittura, potrebbe essere la nascita e non la fine di una civiltà.