Drive my car (recensione)
“Drive my car” è un film che è il suo titolo. “Guida la mia auto”, o anche “lascia agli altri la possibilità di prendere in mano la tua vita”, permetti loro di aiutarti nei momenti in cui sei da solo e tormentato, proprio come il protagonista Yusuke Kafuku che, a partire dall’evento scatenante all’inizio del film, si ritrova segnato da un’incomunicabilità nei confronti dell’alterità, perciò incapace di tradurre in parole i suoi pensieri.
La pellicola del regista Ryūsuke Hamaguchi, fresca vincitrice dell’Oscar al miglior film in lingua straniera, è un percorso sottoforma di mosaico, costituito da tantissimi dialoghi che fanno da tasselli indispensabili per la resa del “disegno” finale: la concessione all’altro di entrare in sé. Non da intendersi come un abbandono passivo, passaggio di testimone della propria vita a qualcun altro, ma come un’apertura che parte dall’auto-centrarsi consapevole che senza lo scambio esterno con il mondo, semplicemente, non si è. Proprio per questo, nel film, l’identità di tutti i personaggi è costantemente in trasformazione, mai monolitica. È il concetto di identità perennemente co-costruita che emerge con forza dalle inquadrature pittoriche di Hamaguchi; una costruzione a cui tanti attori partecipano: attori sociali e di finzione teatrale allo stesso tempo, che qui si fondono a voler dire “il teatro è vita, la vita è teatro”.
Il rapporto tra Yusuke e la sua austista Misaki è un invito allo spettatore: non intendere la vita umana come un mistero da indagare alla stregua di un giallo, rintracciando i colpevoli, gli innocenti e i motivi logici di ogni azione, ma di provare a fermarsi per comprendere, più che le cause del fare e del dire umano, l’autenticità delle persone che si hanno attorno.
“Drive my car” può essere in grado di fornire, a chi lo vede, una chiave d’accesso nuova al mondo, in termini più filosofici, di colpire dritto alla propria concezione della realtà, alla propria Weltanschauung.