Cina: la “zero Covid” policy e il fiume di proteste nel Paese
Da Piazza Tienanmen nel 1989 ad oggi mai in Cina ci sono stati movimenti spontanei e popolari come quelli contro la politica “zero-Covid” che ormai dall’inizio della pandemia il partito ha adottato per quanto riguarda i metodi di contenimento dei focolai.
Questa scelta strategica consiste nell’effettuare tamponi a tappeto, ripetuti diverse volte a distanza di ore, in interi quartieri, anche nel momento in cui vi siano casi singoli o banalmente sospetti. Le misure sono così restrittive da implicare addirittura l’apposizione di sigilli ad aree anche molto vaste, impedendo l’ordinario svolgimento della vita sociale e lavorativa delle persone, in quelle zone letteralmente recintate; tali metodi aspri, inutile dirlo, di certo surclassano ampiamente la tanto discussa regolamentazione a zone colorate, su cui ci si permette anche un sorriso ironico, che durante il pieno della pandemia fu adottata in Italia.
Nei giorni scorsi, a Urumqi, capitale dello Xinjiang, c’è stata una manifestazione spontanea da parte della popolazione contro il regime: il 25 novembre, a causa di un incendio, sarebbero morte dieci persone in un palazzo, l’incidente sarebbe potuto esser solo un tragico ricordo senza vittime se non fosse stato aggravato dal fatto che a causa delle restrizioni sanitarie quella struttura era in quarantena e quindi la fuga degli inquilini della palazzina è stata fortemente ostacolata (addirittura attraverso la chiusura delle uscite d’emergenza, per evitare fughe dall’area sottoposta alla quarantena), fino a diventare una vera e propria prigione di morte per alcuni.
Questa protesta, preceduta da tante altre, organizzate o spontaneamente nate prima e dopo il 20° Congresso del Partito Comunista, si è dipanata lungo le strade di tante città, con slogan come “Partito comunista, fatti da parte” e “Xi Jinping, dimettiti” oppure, ancora, “Non vogliamo tamponi, vogliamo libertà”. Le grida di speranza sono state sedate com’è ormai divenuto consuetudinario per la leadership cinese: cariche della polizia e arresti a tappeto, censura e blocco dei social network per tutti coloro che hanno condiviso sulle piattaforme web video o immagini degli scontri nelle piazze, da Wuhan a Guangdong, da Pechino a Shanghai.
Protagonisti tutt’altro che silenziosi sono i giovani, tra studenti e universitari, che per ovviare alla censura e alle cariche hanno adoperato l’escamotage della “rivoluzione del foglio bianco”, ovvero manifestare con striscioni e cartelli vuoti, simbolicamente inattaccabili, perché esenti da una diretta comunicazione punibile, ma celanti un messaggio più complesso, che si traduce con principi che agli occhi di un coetaneo nato dall’altra parte del mondo sembrano essere concetti ovvi, scontati per certi versi: “Democrazia e stato di diritto, libertà di espressione”.