L’antirazzismo razzista di un paese senza memoria
Maestri nell’arte del sadomasochismo, noi italiani. Di fronte alle emergenze, o meglio alle cicliche istanze inevase, ci autobolliamo come razzisti. Un paese condannato all’improvvisazione financo del provvisorio, capace, però, di rappresentarsi per quello che non è.
L’antirazzismo da riporto è incolto, inesperto, fugace. Coglie quello che non c’è, descrive quello che non esiste, elabora ciò che non ha sovrastrutture: ad oggi, non vediamo un’Italia razzista. Non lo è culturalmente, politicamente, storicamente. Per instillare i germi della discriminazione razziale è stata necessaria un vergognosa legge, quella del 1938, tra l’altro largamente disattesa. C’è voluto il fascismo, c’è voluta l’ultima ed insensata fase del Ventennio mussoliniano. Camice nere, insomma. Non verdi.
In nome di quale razza saremmo razzisti, noi italiani? Domanda tabù nell’Italia antirazzista che lotta contro il razzismo che non c’è. Se c’è un popolo “bastardo”, un popolo figlio di incroci, viaggi, miscugli quello è certamente il nostro. La storia insegna, se non dimenticata: Roma, è vero, ha perseguitato gli ebrei. Uno degli scherzi più beffardi della nostra storia, però, ci ricorda che quella persecuzione non fu su base razziale, ma religiosa: l’impero perseguitò gli ebrei non perché ebrei, ma in quanto “cristiani.” Tutto dimenticato, tutto cestinato per lasciare spazio al blocco antirazzista 2.0:paraculismo italico. Questa sì, malattia endemica tipicamente nostrana.
Gli episodi di intolleranza e di rifiuto dello straniero ci sono. Inutile negarlo. Ma non sono bollabili come razzismo: sono sintomo di rozzezza, di profonda ignoranza, di chiusura quasi tribale nel proprio sottogruppo locale, familiare. “Rozzismo”, come scrive Marcello Veneziani. Le praterie lasciate alla Lega Nord, sempre con meno Nord e con maggiore prospettiva nazionale, cosa sono? Strategie politico-culturali dello schieramento legalitario-antirazzista? O solo l’ennesimo autogol di una partitocrazia e di una “macchina del purismo” incapace di pensare e governare la complessità dei problemi che l’immigrazione comporta? Crediamo che sia proprio l’incedere dell’antirazzismo-fuori tema, tipico di una certa stampa e di una certa politica, a ingenerare pericolose reazioni, molto più dei tweet da caserma di Salvini: negare la necessità di limitare l’immigrazione clandestina, non tener assolutamente in considerazione dei disagi che questa comporta non fa altro che accrescere la paura della cittadinanza. Una popolazione non pervasa di per sè da spinte xenofobe, ma indiscutibilmente insicura della propria vita, preoccupata dal proprio contesto sociale e da quella sensazione di essere “soli ed indifesi.” Una sensazione certamente ingigantita da chi, come Lega e Fratelli d’Italia, specula per puri fini elettorali. Eppure la paura che esiste, è diffusa. Ed è reale. È nella natura umana preoccuparsi innanzitutto di chi è parte della nostra vita e in un secondo momento di chi viene da lontano: “è naturale che un uomo tenga più a suo figlio, a sua madre, poi ai suoi concittadini e dopo a chi viene da lontano. Non possiamo colpevolizzarlo per questo, ognuno di noi ama le persone, non i generi; ama singoli, non l’Umanità ed è solidale a partire dalla prossimità. Si chiama prossimo proprio per questo, perché ti è più vicino, nella vita e nella morte, via via allargandosi all’estraneo.” Il paradosso dell’antirazzismo razzista è che il prossimo deve venire da lontano, deve raccontare altre storie. Altrimenti si fotta.
L’antirazzista radical va alle manifestazioni, organizza cineforum contro ogni forma di discriminazione (come il 17 marzo al cinema Astra, a Napoli) e rivendica ideali solidaristici. Non si preoccupa di conoscere il trattato“Dublino III”. Ignora, forse, la necessità di modificare quella disciplina per far sì che sia l’Europa, e non l’Italia soltanto, a farsi carico del fenomeno dell’immigrazione (clandestina e non). Il solidarismo, che chiude gli occhi, nega il problema ed accoglie l’altro in quanto sempre e comunque concepito come “migliore”, è una iattura retaggio di un’impronta collettivistica e falsamente egualitaria. Tra spinte collettivistiche ed esigenze individualistiche, infatti, una politica capace di governare la complessità sceglierà tenendo conto della “contingenza”. Non più, dunque, baraccopoli ideologiche lungo le rive del consenso. Non più, ancora, un navigare a vista, quanto piuttosto una visione prospettica delle problematiche del nostro tempo, una dimensione complessa della dinamicità che caratterizza la nostra società. Occorre, allora, ritrovare nell’individuo, e non nel solidarismo collettivizzante, lo snodo politico-culturale del nostro tempo.
“L’antirazzismo razzista” è l’ennesima pagliacciata di un paese, il nostro, stancamente ancorato alla contemporaneità, smemorato ed incapace di pensare al proprio futuro.