G7 di Taormina. Com’è andata e cosa significa per l’Italia
Negli ultimi due giorni, nella fanfara mediatica – più italiana che internazionale, fatta di dettagli mondani e commenti sulla incredibile capacità del nostro apparato di sicurezza per aver saputo semplicemente svolgere il suo lavoro, è andato in scena il summit dei sette paesi più industrializzati del mondo, il Gruppo dei 7 o G7.
Due giorni di meeting, a conclusione di un anno di lavori preparatori a livello diplomatico e ministeriale, che hanno visto i sette leader occidentali, di cui quattro alla loro prima esperienza, discutere su quattro temi internazionali: terrorismo, commercio, ambiente e immigrazione. Questioni per loro natura globali e trasversali che necessitano inevitabilmente di un approccio globale per essere, per lo meno, gestiti se non auspicabilmente risolti – come nel caso del terrorismo.
Ai più che, per la prima volta si sono visti la loro bacheca Facebook intasata di articoli sui gesti dei capi di governo e sulle tante frivolezze e sciocchezze intorno al summit, forse è bene dare un breve accenno storico su cos’è il G7.
Nato nel 1975 su iniziativa del presidente francese Valéry Giscard d’Estaing (personaggio che è stato rievocato più volte per descrivere il futuro dalla neo-presidenza di Emmanuel Macron), la prima sfida globale di questo foro fu cercare una linea comune per affrontare la profonda crisi economico-finanziaria successiva allo shock petrolifero del 1973-74 – che aveva colpito duramente le economie europee, la Francia in particolare, fortemente dipendenti dal petrolio mediorientale. Quindi, lo scopo prefissato di questi summit, che nella composizione attuale comprende Italia, Francia, Germania, Regno Unito, Giappone, Stati Uniti d’America e Canada – dopo essere stata ammessa come ottavo membro, Mosca ha subito “l’onta” dell’esclusione come ritorsione contro l’invasione russa dell’Ucraina nel 2014.
Questa è la storia, in breve. Un foro politico, quindi, che serve per affrontare la necessità, da parte delle grandi economie industrializzate, di governare le grandi sfide globali e trasversali. Da molto tempo però, lo scetticismo sull’efficacia di queste riunioni aumenta, tanto da metterne in dubbio la loro stessa esistenza. Infatti, anche in occasione di questo summit, alcuni hanno parlato di G-Zero, sottolineando l’inutilità di questi summit nel modificare effettivamente le scelte di politica estera da parte di stati sempre più egoisti, in uno scenario sempre più instabile e incerto.
Il meeting di Taormina non ha segnato una svolta in controtendenza, anzi. Senza troppi giri di parole, come preannunciato, questo incontro è stato un mezzo fallimento, soprattutto a causa delle posizioni estreme degli Stati Uniti di Trump. Nel lungo lavoro preparatorio, infatti, erano già emerse posizioni così distanti da sembrare inconciliabili, soprattutto su cambiamento climatico e libero commercio. Posizioni che sono rimaste tali circa l’adempimento degli accordi sul clima di Parigi. Infatti, per non dare l’impressione in casa di essere suscettibile a pressioni internazionali, il presidente americano ha fatto il duro e l’ha spuntata: niente accordo sul clima. Lui deciderà settimana prossima. Ciò non ha impedito la ritorsione francese e tedesca: evidenziare nel comunicato finale, in modo poco diplomatico, che mentre gli Stati Uniti pensano, gli altri 6 agiranno uniti e spediti nell’implementazione degli accordi. Sul libero commercio a livello globale, l’ossessione di Trump per una politica commerciale “più giusta” nei confronti degli Stati Uniti non ha impedito i sette di concordare su un testo di condanna contro il protezionismo, come ogni politica commerciale ingiusta tra stati.
Sul terrorismo, invece, tra un’Europa devastata da continui attacchi terroristici - spinta all’azione dal quasi concomitante attacco terroristico di Manchester (Regno Unito), e l’ossessione di Trump contro lo Stato Islamico, non è stato difficile trovare un accordo: in pratica, la NATO darà una mano, soprattutto a livello di intelligence, facendo partire da Bruxelles e da Napoli aerei spia per intercettare le comunicazioni del nemico.
Ma è sul tema dell’immigrazione che l’Italia registra il risultato più deludente, con implicazioni nefaste di politica estera. Da quando nel nuovo millennio il forum dei G7 si è aperto a Paesi terzi - al fine di aumentare l’inclusività e la legittimità del foro, il Medio Oriente e l’Africa sono diventati interlocutori chiave nell’affrontare le sfide globali. In questo contesto, Roma ha lavorato fino all’ultimo per costruire con Washington un’intesa a favore di una soluzione globale al problema dell’immigrazione, che guardasse non solo agli approcci emergenziali e securitari di breve periodo ma anche a quelli di lungo periodo di sviluppo economico delle comunità dall’altra parte del mediterraneo.
Nonostante alcuni riferimenti positivi nel testo del comunicato finale, la sostanza è stata fortemente indebolita dalla seguente aggiunta americana:
“while upholding the human rights of all migrants and refugees, we reaffirm the sovereign rights of states, individually and collectively, to control their own borders and to establish policies in their own national interest and national security."
Insomma, Trump non ha rinunciato alla sua politica dei muri contro i messicani e dei bandi contro i cittadini derivanti da paesi a maggioranza islamica – anche se, da un lato, i bandi continuano a inciampare in ostacoli di natura legale/costituzionale e, dall’altro, di quei fondi necessari per costruire il famoso muro con il Messico non v’è traccia nella nuova legge di bilancio proposta al Congresso.
Tuttavia, il mancato accordo sull’immigrazione rappresenta qualcosa di più per l’Italia. Il perno centrale della politica estera italiana nel secondo dopoguerra è stato il bilanciamento tra due interessi fondamentali rappresentati dal progetto di integrazione con gli altri stati europei (tendenza europeista) e dall’integrazione con alleanza atlantica filo-americana (tendenza atlantista). In bilico tra queste due tendenze, nel tempo divenute sempre più complesse e articolate, l’Italia ha sempre cercato di ottenere maggiore credito internazionale, grazie alla sua capacità di mediare tra interessi divergenti. L’avvento di Trump, segna però una evidente battuta d’arresto. L’immigrazione poteva essere la scommessa giusta per l’Italia: fare valere il suo stretto legame con i paesi al di là del mediterraneo per aumentare il proprio peso in Europa e, al tempo stesso, a livello internazionale, convincendo Washington ad un approccio globale nella gestione dei rifugiati.
Così non è stato. Risultato, per l’Italia si aspetta una navigazione “a vista” nello scenario internazionale, ora che non può più contare su un appoggio incondizionato degli americani, mentre, in Europa, lo show down finale contro i falchi dell’austerity, causato dalla fine (vicina) della politica economica accomodante della Banca Centrale Europea di Mario Draghi, rianimerà le lotte europee insieme ai venti populisti ed euroscettici.