Il futuro del lavoro e della democrazia
Quale sarà il futuro del lavoro produttivo, del lavoro che produce beni e servizi da vendere alla popolazione? C'è un nesso tra il lavoro e la democrazia rappresentativa, cioè l'elezione di rappresentanti del popolo, la partecipazione e il controllo dei cittadini sul potere politico? I due interrogativi, come vedremo, sono strettamente legati l'uno all'altro.
In questi giorni leggiamo notizie di migliaia di impiegati delle banche prossimi ad essere collocati in pensione. E' la conseguenza, si dice, dell'innovazione tecnologica, dell'economia digitale, che rende superfluo il lavoro delle persone un tempo adibite a sbrigare pratiche agli sportelli bancari e ora sostituite da transazioni che avvengono per via elettronica, mediante un computer da tavolo oppure uno smartphone.
Il caso degli impiegati di banca in esubero apre uno squarcio sul futuro del lavoro produttivo: segnala che nei prossimi anni un numero sempre più ridotto di lavoratori stipendiati nelle imprese private saranno necessari per la produzione, specie se assistiti da dispositivi come i robot che svolgono funzioni ripetitive al posto degli esseri umani. Sempre meno occupati, dunque, produrranno una massa crescente di merci.
Il problema che si pone in un'economia capitalistica, in Italia come in altri Paesi, è: chi acquisterà queste merci? Se i lavoratori produttivi tendono a ridursi e il monte di salari e stipendi che percepiranno, il loro potere d'acquisto, crescerà meno del valore di quanto producono, quali gruppi sociali compreranno le merci prodotte e chi fornirà loro i quattrini da spendere?
La risposta che i sindacati e i partiti storici della sinistra hanno dato finora a questi interrogativi, poggia su due rivendicazioni: la riduzione dell'orario di lavoro di quanti operai e impiegati saranno ancora al lavoro nelle fabbriche e negli uffici e l'aumento delle loro retribuzioni. Con le battaglie dei sindacati, si dice, riducendosi l'orario di lavoro si stabilizzerà se non crescerà il numero delle persone occupate nella produzione e con l'aumento degli stipendi aumenterà la massa dei salari e degli stipendi che i lavoratori dipendenti avranno a disposizione per spendere in consumi e migliorare il tenore di vita.
La risposta però è insufficiente a risolvere il problema del vuoto di mercato che si crea con le innovazioni e con il conseguente aumento della produttività del lavoro. L'assetto attuale del capitalismo nei Paesi sviluppati dell'Occidente è dominato da imprese multinazionali governate da un'oligarchia di azionisti e dai loro fiduciari (i dirigenti, i manager), i quali incassano profitti e retribuzioni smisurati e perciò non alimentano una rilevante domanda per consumi tale da creare un mercato adeguato.
Una risposta più articolata alla questione dell'eccesso di produzione che porta al ristagno economico, dovrà affrontare alcuni problemi interconnessi: la tassazione dei profitti delle multinazionali che insieme alle tasse da applicare specie ai redditi della popolazione più ricca potrà consentire il finanziamento della spesa pubblica, la quale crea domanda pagante per le merci prodotte dalle imprese; l'erogazione da parte del governo di sussidi ai poveri, che aumenteranno tra gli anziani e tra i disoccupati espulsi dalla produzione e pure i sussidi diventano domanda pagante; il sostegno dello Stato da offrire alle imprese non profit, non capitaliste, che producono beni e servizi socialmente utili; l'orientamento del potere politico da cui dipendono tasse e spesa sociale capaci di redistribuire la ricchezza.
Sono argomenti propri della politica, di chi governa le istituzioni rappresentative. Sono argomenti che chiamano in ballo la questione del potere, della rappresentanza dei cittadini, dell'organizzazione del consenso, del controllo che gli elettori saranno in grado di esercitare sugli eletti.
Riusciranno i vecchi partiti politici della sinistra storica ad organizzare le forze necessarie? E quale sarà il rapporto tra partiti e sindacati? Serviranno invece nuove formazioni politiche, come i movimenti autogestiti da gruppi d'interesse, capaci di esprimere una rappresentanza diretta, non delegata al ceto politico, una nuova democrazia, si dice, priva di un'organizzazione stabile, strutturata, gerarchica? E non correremo in tal caso il pericolo che si affermi la dittatura di una burocrazia incontrollata oppure il dominio di caste e gruppi di potere organizzati?
Sono queste alcune domande poste dalla realtà dei nostri giorni, dalla crisi dei partiti della sinistra storica, dal declino dei sindacati dei lavoratori dipendenti, dall'emergere di movimenti snelli e autogestiti che però oscillano tra la difesa di corporazioni e il populismo interclassista.
Le cose si muovono e prendono forma sotto la spinta dell'innovazione tecnologica resa possibile dagli sviluppi della scienza, un'innovazione che sconvolge i vecchi assetti produttivi e i rapporti tra le classi sociali. Nello sfondo tuttavia si pongono problemi inquietanti, in primo luogo la presenza di limiti fisici che alla crescita quantitativa della ricchezza impongono le risorse non rinnovabili e la tutela dell'ambiente naturale.
Per una rassegna di questi problemi, dell'interdipendenza che si stabilisce tra scienza, innovazione produttiva e rapporti sociali nel contesto di vincoli sempre più stringenti posti dalla natura, si può leggere un libro scritto da Mario Agostinelli, uno studioso di chimica/fisica, militante nelle istituzioni pubbliche e nel sindacato, e Debora Rizzuto, una giovane astrofisica. Il libro ha un titolo accattivante: "Il mondo al tempo dei quanti. Perchè il futuro non è più quello di una volta", con la prefazione di Gianni Mattioli e Massimo Scalia e la postfazione di Giorgio Galli, Mimesis edizioni, Milano, 2016.
Il lettore paziente condividerà le argomentazioni di Agostinelli e di Rizzuto superando il fastidio di alcune ripetizioni e di qualche affermazione enfatica. Apprezzerà l'onestà degli autori che non appartengono alla cerchia dei cattolici e tuttavia riconoscono il valore rivoluzionario dell'enciclica di papa Francesco Laudato sii mi' Signore.
Infine è degno di riflessione lo scritto finale, la postfazione scritta dal noto politologo Giorgio Galli che affronta in maniera originale, forse da visionario, la questione della democrazia diretta chiamata a sostituire la democrazia delegata così come la conosciamo e la pratichiamo. Dico: forse da visionario. Ma se a una persona dei nostri tempi togliete la libertà di sognare un futuro più gratificante del presente, che cosa gli rimane di esaltante? Uno spettacolo in televisione, una scarpa per donna con tacco 12 oppure multicolorata per uomo, uno scambio di battute con interlocutori sconosciuti su un sito social?