Dibba e la rivoluzione di cui non avevamo bisogno
Dibba resta a casa. A fare il papà, dice lui.
Noi gli crediamo, perché di sospetti sta morendo il dibattito pubblico ed il giornalismo.
Certo, qualcuno ha fatto notare che, con tale “passo indietro”, Di Battista si candida in pectore per un secondo giro di giostra da “capitano unico”.
La prossima, infatti, si annuncia una legislatura breve.
I pentastellati, ancora per un po’, hanno deciso di “giocare alla democrazia”, autoinfliggendosi il limite dei due mandati: lo aggireranno, statene certi, vagabondando per incarichi “a latere”. Per il momento, però, tengono il punto.
Dunque, Di Battista farà politica dall’esterno e dall’interno della politica sono piovuti complimenti (da Renzi in giù).
Anche il giornalismo italico (o meglio quel che ne resta) si è inchinato di fronte al gesto nobile e rivoluzionario del pentastellato più confuso e convincente d’Italia.
Pare che inizino a prenderci gusto un po’ tutti, nel Movimento. Anche Roberto Fico, infatti, ha annunciato che non sarà candidato: aspetta il suo turno in Regione, dicono i cattivi.
Noi, invece, come al solito, gli crediamo.
La nuova politica che fa politica fuori dai palazzi della politica ci piace.
Del resto, il sogno inconfessabile della nostra generazione è lo stesso di sempre: rifuggire dalla responsabilità del cambiamento. Per questo motivo, non a caso, abbiamo finito per odiare Renzi.
Un tempo, nemmeno troppo lontano, si lodavano gli interventi a gamba tesa, le discese in campo.
Nel bene o nel male, il potere era sinonimo di responsabilità e, per azionare il cambiamento, occorreva cambiare le regole, riformare i tessuti, stravolgere le filiere.
In trent’anni, si è passati dal “celodurismo” celtico della Lega al “celopurismo” dei cinque stelle.
Dalla (risibile) virilità alla manifesta impotenza: in un Paese che ha smesso di fare figli, la purezza è roba da andrologi.
La verità è che gli elogi al ritiro (a tempo determinato) sono una delle cose più noiose ed irritanti cui ci è toccato assistere in questi mesi.
Di Battista che non si ricandida rappresenta al meglio una generazione che pensa di essere più furba di quelle precedenti, senza ricordarsi di essere semplicemente più povera.
Una generazione che non crede alla politica, non solo ai politici.
Una generazione codarda, che è incapace di “pensare futuro”.
Una generazione tipicamente italiana, sempre vittima, mai carnefice.
Vagamente anarcoide, mai anarchica.
Nella scelta di Di Battista, c’è un sapore tutto adolescenziale, che stride con la sua paternità.
In fondo, è un bravo ragazzo. Dice di essere un viaggiatore, ma non ci crede nemmeno lui.
A volerne tratteggiare i contorni, Dibba è un insieme di cose che contano poco, un miscuglio di contrasti evitabili, di contraddizioni superflue.
Il contenitore Di Battista è una sottoforma personificata di blog, un raccoglitore di ovvietà e bufale.
Non c’è un’identità chiara, limpida. In Dibba, convivono il tutto ed il suo contrario, “l’acqua santa e l’acqua minerale.”
Ha svolto, in questi anni, il ruolo di mediatore-ripetitore tra Grillo (e la società Casaleggio) e il gruppo parlamentare: un ruolo che gli sta stretto, perché l’animo gioioso di Alessandro vuole essere libero di non decidere.
In lui, sopravvivono le antiche utopie di rivoluzione pentastellata, i più reconditi desideri di irresponsabilità politica.
Con la sua scelta, il “Che Battista” riesce laddove nemmeno i più puri avevano mai osato: anticipare la soglia della purezza di un altro metro.
Per effetto della Travaglite, infatti, essere onesti non basta più. Serve ritirarsi, arretrare.
Prima, la guerra alla purezza almeno si giocava sul campo, ora si resta a casa o si commenta in Tv.
Ed ecco perché la scelta di Dibba piace così tanto: è perfettamente sintonizzata sulle frequenze del nostro animo gioioso e cazzaro, che non ha nessuna intenzione di assumersi la responsabilità del cambiamento.
Quindi, chi rimane dentro è fesso, prima che disonesto. Dibba pare gridarlo a squarciagola: “liberi tutti”, togliendoci dall’imbarazzo.
Meglio così anche per noi, dunque.
Niente guerra: spazio ai pacifisti della purezza. Celopurismo, più e meglio degli altri.
La scelta di Dibba, insomma, è una rivoluzione.
L’unica, forse, di cui non avevamo bisogno.