Salvini e Di Maio vincitori traditi dall'ingordigia del potere
In pochi giorni avevano ottenuto tutto, in poche ore l'hanno perduto e ci hanno rimesso la reputazione di nuovi uomini di Stato. L'incredibile incidente di autolesionismo è capitato a Matteo Salvini, il capo della Lega, e a Luigi Di Maio, il leader del Movimento Cinque Stelle.
Si erano accuraratamente preparati per dare la scalata al governo dopo le elezioni politiche del 4 marzo scorso.
Avevano fatto piazza pulita delle cariche istituzionali della Camera dei Deputati e del Senato della Repubblica ingurgidando le più importanti.
Avevano organizzato la stesura di un contratto di governo arrivando a produrre un documento che metteva insieme misure contraddittorie (il reddito di cittadinanza per i poveri e la flat tax per i ricchi) e prometteva di accontentare tutti pur sapendo che c'erano scadenze più urgenti da soddisfare (come evitare il rincaro dell'IVA) e pur conoscendo che mancavano risorse per soddisfare simultaneamente reddito di cittadinanza e flat tax.
Avevano scelto uno sconosciuto avvocato e professore universitario come presidente del Consiglio dei ministri e lo hanno mobilitato perchè presentasse una lista prefabbricata di ministri al presidente della Repubblica. Accettata la lista dal capo dello Stato, il nuovo governo avrebbe ottenuto la fiducia dalle Camere e avrebbe tenuto in pugno l'Italia non sotto la guida del presidente del Consiglio uomo di facciata bensì sotto il ferreo comando dei dioscuri Salvini e Di Maio.
Il programma è saltato per una incredibile distrazione dei due registi: avevano inserito tra i candidati ministri un personaggio inatteso, l'economista Paolo Savona, da anni noto per aver accumulato nel tempo incarichi prestigiosi e ben remunerati nella finanza e nell'industria, per il quale Salvini e Di Maio proponevano la carica di ministro dell'Economia. Savona non aveva nascosto il disegno di rinegoziare la posizione dell'Italia nella moneta unica europea, nell'euro, fino ad uscirne e a ritornare alla vecchia lira. Questa era una novità dirompente. Non era contemplata nel contratto di governo strombazzato da Di Maio e Salvini, base per la formazione del nuovo governo.
Il presidente Mattarella non potendo accettare questa vistosa anomalia ha cercato di salvare il varo del governo politico magari assegnando un altro ministero a Savona. Ma non c'è stato verso: gli ingordi Salvini e Di Maio non hanno voluto saperne e Mattarella si è visto costretto a far saltare il tavolo del banchetto ministeriale già predisposto in ogni dettaglio.
Si è aperta allora la diga delle recriminazioni e delle minacce rivolte al capo dello Stato. Il più debole di nervi tra gli interlocutori di Mattarella, Luigi Di Maio, l'ha minacciato di metterlo sotto accusa per attentato alla Costituzione, minaccia che ha poi fatto cadere per non aggiungere il ridicolo al danno subìto.
La vicenda della formazione del nuovo governo si è così riaperta e si svilupperà nei prossimi giorni tra ipotesi le più varie: formazione di un governo tecnico capace di traghettare l'Italia a nuove elezioni politiche? ritorno al governo politico tra Lega e Cinque Stelle privo di Savona ministro dell'Economia? altre ipotesi più fantasiose?
Restano aperti almeno due problemi. Il primo è chiedersi che cosa si ripromettevano Di Maio e Salvini dal ministro dell'Economia Savona che Mattarella ha bocciato. I due politici non avevano messo in conto le reazioni dei mercati finanziari alla preannunciata nomina di Savona, e cioè l'aumento dello spread (la differenza di rendimento tra i titoli di Stato italiani e quelli tedeschi) e le reazioni della Borsa che abbandonava i titoli emessi dalle imprese italiane. Anche questa noncuranza di Di Maio e di Salvini la dice lunga sulla loro attitudine a governare l'Italia. A parte ciò un osservatore più attrezzato intellettualmente (e ce ne vuole poco) è in grado di capire le conseguenze di un orientamento come quello strombazzato dal mancato ministro dell'Economia Savona il quale prevedeva o minacciava di abbandonare la moneta unica europea, l'euro, per tornare alla lira e al tempo stesso annunciava che l'Italia avrebbe ripudiato una parte dei titoli del debito pubblico acquistati da fondi d'investimento stranieri.
Per realizzare questa manovra sarebbe stato essenziale che ogni volta che le entrate fiscali fossero state insufficienti a coprire le spese, l'eccesso di spesa pubblica fosse coperto con titoli di debito pubblico acquistati dalla Banca d'Italia: era essenziale insomma che il nuovo debito pubblico fosse monetizzato. In pratica il progetto avrebbe comportato l'alternativa tra un bilancio in permanente pareggio di entrate e spese e l'emissione di una nuova moneta che si sarebbe svalutata. Una politica, insomma, d'impoverimento degli italiani tanto di quelli che hanno bisogno di prestazioni pagate dallo Stato (ad esempio cure mediche delle Aziende sanitarie locali) quanto di quelli che percepiscono uno stipendio oppure il pagamento di una commessa pubblica che sarebbe stata pagata in lire svalutate dalle amministrazioni pubbliche.
I fautori di questa manovra hanno sostenuto che l'operazione avrebbe avuto effetti positivi sull'economia italiana: una lira svalutata, si è detto, avrebbe dato una spinta alle nostre esportazioni e avrebbe frenato le importazioni. La produzione, l'occupazione e il reddito del nostro paese se ne sarebbero avvantaggiate. Si sarebbe avviato un nuovo ciclo di sviluppo economico.
Ma sarebbe stato proprio così? Ogni economista che ha i piedi poggiati per terra, ne dubiterebbe. Ai nostri giorni un paese come l'Italia che ha avuto una storia industriale lunga più di un secolo, può guadagnare uno spazio significativo nel commercio con l'estero se produce e vende sul mercato internazionale manufatti di qualità piuttosto che prodotti a basso costo grazie ad una moneta svalutata e quindi grazie a salari di fame. La concorrenza internazionale tra paesi industrializzati poggia sulla qualità che significa innovazioni tecniche, disegni accattivanti dei prodotti, bellezza delle merci attinta dalla nostra storia, tradizione artigianale trasferita nella produzione di massa.
I sostenitori del ritorno alla lira sembrano insomma nostalgici di una stagione della nostra economia che non esiste più. Sono come quei consumatori che vanno in cerca di prodotti girando per le strade di un quartiere elegante di Napoli e si soffermano alle bancarelle che vendono merci povere, di bassa qualità, a prezzi stracciati, indumenti confezionati con tessuti spesso nocivi, e invece danno appena uno sguardo alle vetrine che esibiscono manufatti eleganti, belli e costosi.
Insomma i seguaci della Lega più che i grillini sembrano aspiranti al cilicio, alla sofferenza, alla povertà più che essere i cittadini pieni di vitalità, laboriosi, buongustai, come il loro leader Salvini ama presentarsi.
Il secondo problema che resta aperto, è la posizione, l'iniziativa, le prospettive della sinistra italiana, dell'unica forza politica non populista, non sovranista, consistente ancora rimasta sulla scena, il Partito Democratico, della sua capacità di collegarsi con le altre formazioni di sinistra minoritarie, di costituire insieme un fronte unico per contrastare i disegni velleitari, inconcludenti, fallimentari del duo Salvini-Di Maio.
Dalla soluzione di questo problema dipende il futuro dell'Italia.
Mariano D'Antonio, economista