UNA RIVOLUZIONE COSTITUZIONALE PER UN RITORNO ALL’UGUAGLIANZA. I BENI COMUNI
Molto spesso dietro titoli di legge con significato che richiamano idee o azioni positive si celano concetti, azioni e provvedimenti, oggetto di vere e proprie mistificazioni.
Molti provvedimenti perniciosi per l’ambiente, per le fasce più deboli della popolazione, a favore dei potentati finanziari, sono passati con decreti omnibus dal nome ingraziante: “salva Italia, Cresci Italia, decreto ristori”, così è accaduto e accade per il sintagma “BENI COMUNI” e i proteiformi significati ad esso assegnato.
La categoria giuridica di “BENI COMUNI”, che emerge per esempio dalla Commissione Rodotà, rectius “Commissione Mastella”, tradisce l’idea costituzionale di bene pubblico, appartenente al popolo in quanto parte della Comunità Stato, favorendo un’idea ontologicamente dissonante, che ne consente, invece la “privatizzazione” e la “svendita”, nonché la trascrizione nel Conto patrimoniale dello Stato.
Ebbene nella prospettiva della commissione Mastella il demanio è abolito, i beni pubblici sono attribuiti in titolarità a privati o a pubbliche amministrazioni sotto il regime del diritto privato e i beni demaniali, rinominati “BENI COMUNI” sono limitati a un gruppo ristretto di beni del tradizionale “demanio naturale”.
Inoltre, la ricostruzione degli assetti proprietari pubblici, che vede la trasformazione delle precedenti tre categorie (demanio, patrimonio indisponibile e patrimonio disponibile) in frastagliate e ulteriori categorie, risulta farraginosa, complicata e di nessuna utilità.
Si configura la categoria dei beni ad appartenenza pubblica necessaria, cioè quei beni che soddisfano interessi generali fondamentali, la cui cura discende dalle prerogative dello Stato e degli enti pubblici territoriali. La norma fornisce un elenco esemplificativo di tali beni. Ne prevede la non usucapibilità, la non alienabilità e le forme di tutela amministrativa e giudiziale.
Si configura la categoria dei beni pubblici sociali, cioè quei beni le cui utilità essenziali sono destinate a soddisfare bisogni corrispondenti ai diritti civili e sociali della persona. Anche in tal caso, l’elenco è esemplificativo. La norma prevede un vincolo di destinazione pubblica e ne limita i casi di cessazione.
Si configura la categoria di beni pubblici fruttiferi, che non rientrano nelle categorie precedenti e sono alienabili e gestibili dai titolari pubblici con strumenti di diritto privato. La norma regola i casi e le procedure di alienazione.
Da questo elenco non emerge un concetto univoco di proprietà pubblica, quella sancita dal primo comma dell’articolo 42 della Costituzione, secondo il quale “la proprietà è pubblica e privata”, intendendo per “proprietà pubblica”, come immediatamente intuì M.S. Giannini la “, cioè la sola proprietà di quei beni ( in quanto elementi strutturali dello Stato comunità) che ineriscono e sono in relazione diretta con l’esercizio dei poteri sovrani , il cui regime giuridico non può non essere per la caratteristica fondante lo Stato, quello della, “inalienabilità , inusucapibilità inespropriabilità”.
La proprietà collettiva demaniale promana direttamente dal concetto di Comunità Statuale, che si fonda su tre elementi, il popolo, il territorio e la sovranità.
Dunque, non si esce dall’alternativa: i beni appartenenti allo Stato, o sono “demaniali” (e, quindi, “inalienabili inusucapibili inespropriabili”), o sono “patrimoniali”, e cioè “commerciabili” secondo le norme del diritto privato.
È sul crinale di questa endiadi manichea che si muovono quelle interpretazioni ermeneutiche di BENE COMUNE appena richiamate, che fanno degradare la forza giuridica della proprietà collettiva, asservendola al regime di diritto privato, equivocando surrettiziamente sull’appartenenza dei BENI COMUNI alla pubblica amministrazione, per il perseguimento di utilità sociali, senza tuttavia evidenziare la trappola in cui si cade e si cede, quando la pubblica amministrazione agisce in qualità di persona giuridica ,iure privatorum, come qualsiasi privato.
Tale ricostruzione è sintomatica di un meccanismo che prevede continue cessioni di sovranità a favore degli interessi privati, che il popolo è costretto a consentire non solo in tema BENI COMUNI, ma come è accaduto, anche in altri ambiti del diritto.
Le aziende pubbliche sono diventate società partecipate, le licenze edilizie sono diventate permessi di costruire, le banche da enti pubblici si sono trasformate in SPA, incapaci di raccogliere il risparmio e di erogare il credito, che va evidenziato è una public utility, al pari della fornitura di reti di trasporto, energia ed acqua.
In tema di proprietà e rapporti economici, occorre pertanto ritornare a quella che il prof. Paolo Maddalena chiama la rivoluzione costituzionale per un ritorno ai valori della costituzione e dell’uguaglianza, che impone una lettura costituzionalmente orientata delle norme esistenti e una produzione legislativa costituzionalmente adeguata, oltre all’applicazione cogente delle norme imperative della nostra Carta Costituzionale.
Una rivoluzione costituzionale che consista nel realizzare pienamente tutti i principi costituzionali frutto del più alto esempio di compromesso tra umane sensibilità e valori diversi, tanto da far dire, in quel tempo, a Calamandrei, che le forze di destra, essendo stata evitata una rivoluzione immediata, non si opposero a una rivoluzione promessa.
Una visione costituzionale depurata dalla “truffa delle etichette”, che in tema di prorpietà privata condurrebbe a superare la concezione borghese recepita dall’articolo 832 del nostro codice civile, secondo il quale: “il proprietario gode e dispone della cosa in modo pieno ed esclusivo”, sostituendola con una interpretazione costituzionalmente orientata, in riferimento agli articoli 41 e 42 della Costituzione, secondo la quale l’attuale articolo 832 dovrebbe leggersi nei seguenti termini: “il proprietario gode della cosa, assicurandone la sua funzione sociale e dispone della stessa in modo da non contrastare l’utilità pubblica, la sicurezza, la libertà, la dignità umana”.
Nell’ambito della medesima ermeneutica costituzionale il concetto di demanialità dovrebbe vedersi ampliato fino a comprendere i beni comuni, i servizi pubblici essenziali, le fonti di energia, le situazioni di monopolio, le industrie strategiche, come dispone l’articolo 43 della Costituzione.
Ed In quest’ottica si dovrebbe cancellare la categoria di “patrimonio indisponibile” di cui all’art. 826, comma 2, del codice civile, nel quale rientrano, contro ogni logica giuridica, beni, come, ad esempio, le “foreste”, che nell’erronea prospettiva della categoria sarebbero “alienabili” e cioè “disponibili”, con il solo limite, per l’acquirente, di non poterne mutare la “destinazione economica”.
E ancora, è necessario evidenziare come i BENI, cui viene espropriata la richiamata “funzione sociale” devono ritornare in capo alla “proprietà pubblica” del Popolo sovrano, come nel caso di beni abbandonati per la cui ipotesi è pertinente richiamare il disposto dell’art. 827 del codice civile, secondo il quale “i beni immobili che non sono in proprietà di alcuno spettano al patrimonio dello Stato”o l’art., 838 del codice civile, secondo il quale “quando il proprietario abbandona la conservazione, la coltivazione o l’esercizio di beni che interessano la produzione nazionale, in modo da nuocere gravemente alle esigenze della produzione stessa, può farsi luogo all’espropriazione dei beni da parte dell’autorità amministrativa”.
Ecco, che da questa breve ricostruzione, tesa ad evidenziare la diversità delle opinioni in campo in tema di proprietà pubblica, può emergere con forza la categoria costituzionale di bene comune, a fronte di altre visioni apparentemente costituzionali, ma in realtà ancorate ad una visione privatistica dei beni pubblici.
“I beni comuni sono le cose, materiali o immateriali, che, per la loro natura e per la loro funzione, soddisfano diritti fondamentali e bisogni socialmente rilevanti, servendo immediatamente la collettività la quale, tramite i suoi componenti, è ammessa istituzionalmente a goderne in modo diretto. Detti beni sono fuori commercio e sono di proprietà collettiva demaniale o di uso civico e collettivo, urbano o rurale. Qualora si trovino in una proprietà privata, la pubblica amministrazione è tenuta a riacquisirli al patrimonio pubblico, mediante lo strumento della prelazione nelle vendite. La pubblica amministrazione può altresì istituire su tali beni le necessarie servitù pubbliche. In ogni caso la pubblica amministrazione è tenuta a controllare che sia perseguita da parte del proprietario la funzione sociale dei beni a lui nominalmente appartenenti. Nei casi di imprese che si riferiscono a servizi pubblici essenziali, a fonti di energia necessarie a garantire la prestazione di servizi essenziali o a situazioni di monopolio, la pubblica amministrazione è tenuta ad acquisirle alla proprietà pubblica e, se del caso, a trasferirle o ad affidarle a comunità di lavoratori o di utenti, ai sensi dell'articolo 43 della Costituzione”.
I beni comuni così delineati avrebbero una tutela rinforzata perché potrebbero essere difesi in forza di una legittimazione processuale aperta, anche dai cittadini, singoli o associati, secondo il principio di sussidiarietà, i quali avrebbero interesse processuale collettivo a stare in giudizio in forza dell’esercizio diretto del diritto a non vedersi depauperati in una quota parte di sovranità, secondo quanto previsto dall’art. 1 cost.
A tal proposito anche la Cassazione ha previsto uno specifico mezzo di tutela utilizzabile nel caso di azioni a difesa di interessi pubblici quale è l’azione popolare, che rappresenta una ipotesi di azione concessa dal legislatore, allo scopo di tutelare un interesse pubblico, attraverso l'attribuzione di una legittimazione diffusa, che, perciò, prescinde dalla specifica titolarità di una situazione giuridica soggettiva qualificata in capo all'attore (o agli attori) di diritto privato. La rilevanza di tale interesse, e quindi la sua tutelabilità in funzione del soddisfacimento di un fine dotato di una connotazione pubblicistica (di ripristino della legalità), è riconosciuta "ex ante" dal legislatore e non richiede, pertanto, un accertamento da parte del giudice, nel senso che l'interesse ad agire deve presumersi sussistente, una volta verificata la pertinenza al soggetto dell'interesse di cui si lamenta la lesione.
Di tal chè sarebbe possibile per i cittadini, singoli o associati, difendere la proprietà pubblica dei beni e i BENI COMUNI, anche nei casi eclatanti di beni di proprietà del Comune di Napoli per quegli immobili, come l’ex convitto delle Munachelle, inserito nella lista dei beni patrimoniali in dismissione, affinchè venga dichiarato bene comune di proprietà pubblica ed in quanto tale inalienabile inusucapibile ed impignorabile, aperto alla valorizzazione sociale e culturale, di uso civico e collettivo urbano in conformità agli artt. 41 e 42 costituzione.
Michele Arcangelo Lauletta