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Un ricovero durante il Covid

Scritto da Luca Murolo Il . Inserito in A gamba tesa

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Covid, questo acronimo fino ad un anno fa sconosciuto, è entrato di prepotenza nelle nostre vite. Non ce ne si può dimenticare neanche volendo, neanche fingendo. Esci di casa: hai preso la mascherina?

Più importante dei documenti, che se non stai guidando, ed anche in questo caso non è detto che ti fermino e te li chiedano, ma senza mascherina oramai sei una mosca nel latte. Più importante delle sigarette, per i fumatori, ovvio, perché se le dimentichi, puoi comprarle. Ma senza mascherina non entri nemmeno dal tabaccaio! Eppure, c’è ma non si vede, anche se a questo punto della vicenda tutti abbiamo avuto un lutto, chi più vicino, chi più lontano, ma continua a non vedersi, se non nei bollettini di guerra con cui si aprono i telegiornali.

Non si vede, non cammina per strada affianco a noi, eppur basta avvicinarsi ad un Ospedale, anche solo passarci avanti, e l’atmosfera si fa pesante. Accedervi, poi, un altro mondo!
Una semplice prenotazione per una visita specialistica può richiedere misurazione di temperatura, file apocalittiche e qui già la paranoia si taglia con il coltello. Ma andarla a fare, la visita specialistica, magari in un grande ospedale, poniamo il II Policlinico, è un incontro più ravvicinato con il famigerato Covid.

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Magari è necessario un “triage”, cioè il test immediato, non il tampone; quello fatto con una rapida analisi del sangue, raccolto con una punturina sul dito, tramite un’apposita “penna”. E carte, autocertificazioni, carte e documenti. I cittadini più ligi e sensibili al corretto funzionamento della macchina pubblica, pazientemente si sottopongono a tutto, altri cominciano a dare segni di insofferenza ed a domandarsi se è poi necessaria tutta questa perdita di tempo. L’infermiere oramai avvezzo a questa procedura, persino più fastidiosa per chi deve applicarla che per chi deve subirla, può sembrare scortese e frettoloso, ma una persona gentile che spiega la necessità della cosa, c’è sempre.


Ben altra cosa è essere ricoverati. Io, paziente a rischio, in quanto trapiantato di rene e chimicamente immuno-depresso, ho evitato ciò con tutte le mie forze, fino alla fine, quando si è reso necessario oltre ogni ragionevole dubbio. E qui comincia un viaggio, ed il compagno di avventura è proprio quel Covid sconosciuto e temuto, di cui si era a conoscenza, ma era così comodo tenere a distanza, anche solo mentalmente. La cosa che colpisce subito, ma che a pensarci bene non è affatto strana, è che il primo impatto è respingente.

La macchina sanitaria, l’apparato tutto, dai medici alle strutture preposte, non ti vuole. Le visite di controllo si svolgono per telefono, la analisi vengono inviate via e-mail, ma poi, se il caso veramente lo richiede, se non si tratta, in altre parole di un’unghia incarnata o di un malessere passeggero, la Sanità, come una vergine ritrosa, alla fine ti accoglie. Con tutte le precauzioni, e qui risparmio metafore, un accurato screening è il primo passo, e nel mio caso ero oramai boccheggiante con un emocromo a 7, dichiarata anemia e mancanza di forze totali, preso e portato di peso nel reparto. E qui il miracolo, un silenzio irreale, cosa assolutamente nuova per chi purtroppo reparti e corsie d’ospedale ne ha viste.

Non c’è quella folla di umanità sofferente, ma inevitabilmente chiassosa; non ci sono visitatori vaganti alla ricerca del proprio malato o di un medico, il silenzio è prepotente ed inquietante.

Si sente il Covid. Qualche infermiere gira come un astronauta, serio e compreso nel suo ruolo, altri, più leggeri sembrano comunque apicoltori, coperti fino alla punta delle orecchie. Mi viene assegnata una stanza singola, cosa più unica che rara nei nostri ospedali. Ma la cosa meravigliosa, è che la macchina funziona, ed in pochi giorni mi rimettono in piedi e sono qui a raccontarlo. Ma l’atmosfera è cupa e qui il Covid si sente, è in agguato dietro l’angolo e l’Uomo, nelle sembianze del personale sanitario nella sua totalità, è in assetto di guerra, pronto ad affrontarlo. E nuovamente mi vengono in testa quelle parole di un autore francese con cui aprii il mio primo romanzo: Raccontare, perché non farlo sarebbe molto peggio.