La legittima difesa (14). America armata: il mito della self-defense a stelle e strisce
La legittima difesa (14). America armata: il mito della self-defense a stelle e strisce
di Luca Orlando continua la lettura….
La legittima difesa (14). America armata: il mito della self-defense a stelle e strisce
di Luca Orlando continua la lettura….

di Luca Orlando continua la lettura….

di Luca Orlando
di Luca Orlando
“Ho salvato la mia vita, ma non so se lo rifarei”. continua la lettura….

di Luca Orlando
Difendersi è un diritto, dice la legge.
Ma una volta che ci si è difesi da un pericolo imminente, bisogna anche difendersi dal processo.
È una contraddizione solo apparente, perché in Italia — e non solo — ogni reazione violenta, anche quella nata per proteggere la propria vita, viene comunque sottoposta al vaglio della magistratura.
Una verifica necessaria, certo.
Ma che può trasformarsi in un calvario umano e giudiziario per chi, già segnato da un’esperienza traumatica, si ritrova anche sotto accusa.
Chi ha reagito a un’aggressione non è automaticamente colpevole, naturalmente, ma nemmeno automaticamente innocente.
È il giudice che dovrà stabilire se la sua azione è stata legittima, proporzionata, inevitabile. Ed è in quel momento che il processo si sposta dal fatto all’intenzione: “Voleva difendersi o voleva punire?”, “Era davvero in pericolo o ha colto la scusa per colpire?”, “Avrebbe potuto fare diversamente?”.
A queste domande, nessuna legge può rispondere da sola.
E così il giudizio diventa anche interpretazione di un’emozione, di un istante, di un impulso.
Il caso emblematico è quello in cui il pericolo non è più attuale.
Se l’aggressore sta scappando, se non è armato, se non ha ancora agito, si entra in un’area grigia in cui la valutazione si fa delicata.
Perché la legittima difesa non è concessa “a prescindere”, ma solo se si dimostra che il pericolo era reale, immediato, ineludibile. Un requisito tanto razionale sulla carta quanto difficile da rispettare nella realtà.
Molti di coloro che hanno reagito — colpendo, ferendo, a volte uccidendo — raccontano dopo di non aver avuto il tempo di pensare.
Di aver agito per istinto, sotto shock.
Eppure, in tribunale, si chiede loro di ricostruire ogni gesto, ogni parola, ogni dettaglio.
Il processo diventa così un secondo trauma: rivivere il momento, giustificarlo, sostenerne la necessità.
Non si tratta solo di una questione di norme, ma anche di linguaggio.
Spesso si sente dire che “chi si difende finisce per passare guai peggiori dell’aggressore”. Un’esagerazione? In parte sì, ma non del tutto infondata.
Le spese legali, la lentezza dei procedimenti, l’esposizione mediatica, l’ansia per una possibile condanna: tutto questo pesa.
Eppure, fermare i processi in automatico — come qualcuno propone — sarebbe altrettanto pericoloso.
Significherebbe accettare che qualsiasi gesto violento compiuto in nome della difesa sia sempre legittimo.
Un lasciapassare che rischia di giustificare reazioni vendicative, e che contraddice la natura di uno Stato di diritto.
La giustizia, per essere tale, deve valutare. E per valutare, deve indagare.
La soluzione non sta nell’abolire i processi, ma nel gestirli con attenzione e umanità. Riconoscere che chi ha subito un’aggressione è già, di per sé, una vittima.
Offrirgli tutela legale, tempi rapidi, strumenti psicologici adeguati.
Rispettare la sua paura, ma senza rinunciare al dovere di distinguere tra difesa e punizione.
Burnout: La miccia e la scintilla
di Roberta Baiano
Il burnout non arriva all’improvviso.
È una combustione lenta, che comincia quando lo sforzo quotidiano non trova più un ritorno.
La frustrazione – quel muro invisibile tra ciò che si vuole e ciò che si ottiene – diventa l’innesco.
Herbert Freudenberger, nel 1974, ha dato un nome a questo stato di esaurimento professionale: burnout.
Una sindrome che oggi l’OMS definisce come conseguenza dello stress cronico sul lavoro, non gestito con successo.
In altre parole, è ciò che resta quando la persona si svuota. L’energia cala, la motivazione evapora, il cinismo cresce come unica forma di difesa. Il corpo e la mente si ribellano, ma in silenzio.
I sintomi si confondono con la vita stessa: stanchezza costante, insonnia, irritabilità, dolori diffusi, perdita di interesse per tutto ciò che non sia sopravvivenza.
Si diventa spettatori del proprio lavoro, incapaci di reagire.
Le donne spesso sentono prima la frattura, perché vivono un maggior coinvolgimento emotivo.
Gli uomini la negano più a lungo, finché crollano di colpo.
Il burnout non è solo la somma di stress e fatica.
È il punto in cui la motivazione cede il passo alla rassegnazione, e il lavoro smette di essere identità per diventare minaccia.
È una spirale che si avvita lentamente, dove l’individuo continua a correre anche quando non sa più perché.
La miccia è accesa da tempo, ma la scintilla arriva solo quando si è già bruciato quasi tutto.

di Luca Orlando
Difendersi è un diritto, dice la legge.
Ma una volta che ci si è difesi da un pericolo imminente, bisogna anche difendersi dal processo.
È una contraddizione solo apparente, perché in Italia — e non solo — ogni reazione violenta, anche quella nata per proteggere la propria vita, viene comunque sottoposta al vaglio della magistratura.
Una verifica necessaria, certo.
Ma che può trasformarsi in un calvario umano e giudiziario per chi, già segnato da un’esperienza traumatica, si ritrova anche sotto accusa.
Chi ha reagito a un’aggressione non è automaticamente colpevole, naturalmente, ma nemmeno automaticamente innocente.
È il giudice che dovrà stabilire se la sua azione è stata legittima, proporzionata, inevitabile. Ed è in quel momento che il processo si sposta dal fatto all’intenzione: “Voleva difendersi o voleva punire?”, “Era davvero in pericolo o ha colto la scusa per colpire?”, “Avrebbe potuto fare diversamente?”.
A queste domande, nessuna legge può rispondere da sola.
E così il giudizio diventa anche interpretazione di un’emozione, di un istante, di un impulso.
Il caso emblematico è quello in cui il pericolo non è più attuale.
Se l’aggressore sta scappando, se non è armato, se non ha ancora agito, si entra in un’area grigia in cui la valutazione si fa delicata.
Perché la legittima difesa non è concessa “a prescindere”, ma solo se si dimostra che il pericolo era reale, immediato, ineludibile. Un requisito tanto razionale sulla carta quanto difficile da rispettare nella realtà.
Molti di coloro che hanno reagito — colpendo, ferendo, a volte uccidendo — raccontano dopo di non aver avuto il tempo di pensare.
Di aver agito per istinto, sotto shock.
Eppure, in tribunale, si chiede loro di ricostruire ogni gesto, ogni parola, ogni dettaglio.
Il processo diventa così un secondo trauma: rivivere il momento, giustificarlo, sostenerne la necessità.
Non si tratta solo di una questione di norme, ma anche di linguaggio.
Spesso si sente dire che “chi si difende finisce per passare guai peggiori dell’aggressore”. Un’esagerazione? In parte sì, ma non del tutto infondata.
Le spese legali, la lentezza dei procedimenti, l’esposizione mediatica, l’ansia per una possibile condanna: tutto questo pesa.
Eppure, fermare i processi in automatico — come qualcuno propone — sarebbe altrettanto pericoloso.
Significherebbe accettare che qualsiasi gesto violento compiuto in nome della difesa sia sempre legittimo.
Un lasciapassare che rischia di giustificare reazioni vendicative, e che contraddice la natura di uno Stato di diritto.
La giustizia, per essere tale, deve valutare. E per valutare, deve indagare.
La soluzione non sta nell’abolire i processi, ma nel gestirli con attenzione e umanità. Riconoscere che chi ha subito un’aggressione è già, di per sé, una vittima.
Offrirgli tutela legale, tempi rapidi, strumenti psicologici adeguati.
Rispettare la sua paura, ma senza rinunciare al dovere di distinguere tra difesa e punizione.