La legittima difesa (8). Legittima difesa e Costituzione: diritti in conflitto?

Social
image_pdfimage_print

La legittima difesa (8). Legittima difesa e Costituzione: diritti in conflitto?

di Luca Orlando

 

La Costituzione è il cuore giuridico di un Paese. 

Ne incarna i valori, ne regola gli equilibri, ne custodisce la coerenza. 

Ma come ogni cuore, anche la nostra Carta ha battiti che talvolta si fanno dissonanti. 

 

Uno di questi riguarda proprio la legittima difesa. 

Perché, se da un lato c’è il diritto inviolabile alla sicurezza e all’autodifesa, dall’altro ci sono diritti altrettanto fondamentali: il diritto alla vita, alla proporzionalità della pena, al rispetto della persona, persino quando è colpevole.

 

L’articolo 13 della Costituzione sancisce che la libertà personale è inviolabile

L’articolo 25 che nessuno può essere punito se non in forza di una legge. 

E poi c’è l’articolo 27, che afferma un principio tanto solenne quanto delicato: la pena deve tendere alla rieducazione. 

 

Tutto questo si scontra o, meglio, si interseca, con l’articolo 52 del Codice Penale, che legittima la difesa personale in presenza di un’offesa ingiusta e attuale.

Ma che succede quando chi si difende agisce in modo sproporzionato? 

Quando chi agisce lo fa colpito dal panico, senza valutare la reale entità del pericolo

 

Il diritto a difendersi, in quel momento, entra in collisione con i principi di equilibrio, ragionevolezza e proporzione che permeano la Costituzione. 

E in queste collisioni non c’è mai un vincitore chiaro.

Le Corti, italiane ed europee, si trovano spesso a giudicare casi in cui i diritti sembrano scontrarsi. 

Difesa della vita propria contro la tutela della vita altrui. 

Autotutela contro monopolio statale della giustizia

È una danza sottile, dove ogni passo giuridico ha riflessi profondamente umani.

 

Un esempio emblematico? 

La cosiddetta “presunzione di legittima difesa” introdotta nel 2019 per chi reagisce a un’intrusione in casa. 

Una norma pensata per restituire sicurezza a chi si sente indifeso tra le mura domestiche. Ma che ha sollevato dubbi sul piano costituzionale: può davvero lo Stato decidere che una reazione è “a prescindere” proporzionata, senza lasciare spazio alla valutazione concreta del giudice?

 

La Corte Costituzionale non si è ancora pronunciata in modo netto su queste modifiche, ma il dibattito è acceso. 

Perché in gioco non c’è solo la protezione del singolo, ma l’identità stessa del nostro ordinamento: uno Stato di diritto che non abdica mai al principio di equilibrio.

 

La verità è che la Costituzione non è fatta per legittimare gli istinti. 

È fatta per guidarli. 

Per ricordare che la giustizia non può diventare giustizialismo, che la paura non deve mai superare la ragione, che anche chi sbaglia ha diritti.

La legittima difesa (6). Quando la legge entra in casa: come è cambiata la legittima difesa domestica

Social
image_pdfimage_print

La legittima difesa (6). Quando la legge entra in casa: come è cambiata la legittima difesa domestica

di Luca Orlando

 

Non c’è luogo più sacro, più personale, più vulnerabile della propria casa. E forse per questo, quando si parla di legittima difesa, è proprio tra le mura domestiche che il dibattito diventa più acceso. “Posso difendermi se mi entrano in casa?” – una domanda semplice, che cela in realtà un oceano di sfumature giuridiche e morali.

 

Per molti anni, il nostro ordinamento ha chiesto una cosa precisa a chi reagiva a un’aggressione: la risposta deve essere proporzionata, necessaria, inevitabile. 

Ma come si misura la proporzione quando il panico bussa alla propria porta? È davvero possibile restare lucidi quando un’ombra sconosciuta si muove nel buio della propria casa?

 

Nel 2019, il legislatore italiano ha cercato di rispondere a questi interrogativi con una modifica dell’articolo 52 del Codice Penale. 

Da allora, chi reagisce a un’intrusione violenta o minacciosa in casa o sul luogo di lavoro gode di una “presunzione legale” di proporzione tra offesa e difesa. 

Una svolta, per molti. 

Un pericolo, per altri. 

Perché, se è vero che la norma tutela chi si difende, è altrettanto vero che rischia di essere interpretata in modo troppo ampio.

 

Il principio alla base della modifica è chiaro: nella propria abitazione, il cittadino non deve sentirsi costretto a scegliere tra farsi del male o finire sotto processo. 

Ma la giustizia, per sua natura, non può permettersi scorciatoie. 

Ogni caso è una storia a sé, ogni aggressione ha il suo contesto, ogni reazione il suo peso morale e giuridico.

 

Le procure, da parte loro, non hanno smesso di indagare. 

La presunzione di legittimità della difesa domestica non è una patente per sparare a vista. È un’indicazione, non un salvacondotto. 

Se un ladro disarmato fugge e viene colpito alle spalle, difficilmente si parlerà di legittima difesa. Anche dentro casa.

 

Questo equilibrio instabile tra diritto e paura, tra sicurezza e giustizia, si riflette ogni giorno nei titoli di cronaca. 

Famiglie terrorizzate, ladri sorpresi, reazioni istintive. 

E poi processi, sentenze, assoluzioni e condanne.

 

In tutto questo, la legge cerca di fare il suo lavoro: proteggere i diritti, punire gli abusi, capire gli errori. 

Ma la verità è che nessuna norma potrà mai contenere del tutto ciò che si prova quando il confine tra casa e minaccia si dissolve.

 

Difendersi resta un diritto. 

Ma anche dentro casa, la giustizia deve continuare a chiedere: era necessario? Era giusto?

La legittima difesa (7). Troppa difesa? Il confine sottile tra sicurezza e abuso

Social
image_pdfimage_print

La legittima difesa (7). Troppa difesa? Il confine sottile tra sicurezza e abuso

di Luca Orlando

 

C’è una linea invisibile che separa chi si difende da chi attacca. 

A volte quella linea è netta, inequivocabile: un rapinatore entra armato in casa tua, minaccia te e la tua famiglia. Reagisci, lo colpisci, sopravvivi. 

Nessuno dubita del tuo diritto. 

Ma altre volte, quella stessa linea si fa sfumata. 

Il ladro è disarmato

Sta fuggendo. 

Tu lo rincorri, lo affronti, magari lo ferisci. 

È ancora difesa? O è diventata punizione?

 

Questa domanda – che per un giudice si traduce in valutazione giuridica – per chi la vive è un attimo di caos, di paura, di rabbia. 

Quando la sicurezza personale viene violata, è istintivo reagire. 

Ma è proprio in quel momento che il diritto entra in gioco, chiedendo di distinguere tra necessità ed eccesso.

 

Il nostro ordinamento penale parla chiaro: l’uso della forza in legittima difesa è ammesso solo se è proporzionato all’offesa e se non vi è possibilità di altra via. 

Ma la realtà raramente si lascia incasellare così facilmente. 

Per esempio: una persona armata entra in casa tua e tu reagisci con un coltello da cucina. Scena tragica, ma comprensibile. 

E se invece quella persona è già in fuga? 

E se è stata messa in condizione di non nuocere più? 

In quel caso, continuare a colpire non è più difesa. 

È vendetta. 

E la legge non la tollera.

 

Proprio per evitare che i cittadini si trasformino in giustizieri, la normativa italiana mantiene l’attenzione sull’elemento della “necessità attuale”. 

Significa che si può reagire solo a una minaccia in corso, non a un torto appena subìto. 

Ma questo principio, nella pratica, è durissimo da gestire. 

Perché ogni aggressione ha un carico emotivo, ogni reazione è contaminata dalla paura, dalla sorpresa, dal senso di vulnerabilità.

 

La giurisprudenza è piena di casi al limite. 

Persone assolte perché hanno reagito sotto shock, incapaci di distinguere il pericolo reale da quello percepito. 

Altre, invece, condannate per aver infierito quando l’aggressore era già immobilizzato. 

Il giudice ha il compito ingrato di stabilire se il gesto è stato difesa o abuso. 

Una valutazione che oscilla tra il diritto e la psicologia.

 

Eppure, in un tempo in cui la percezione dell’insicurezza è in costante aumento, è forte la tentazione di allentare le maglie. 

Si invoca il diritto alla difesa “sempre e comunque”. 

Si chiede di poter reagire senza se e senza ma. 

Ma è davvero questo il modello di società che vogliamo? 

Una società in cui ognuno si arma per colmare il vuoto lasciato dalle istituzioni? 

Dove la paura legittima ogni reazione?

 

Il compito del diritto non è solo proteggere le vittime, ma anche prevenire che le vittime diventino carnefici. 

Per questo la legittima difesa non può trasformarsi in una licenza a colpire. 

Serve misura, comprensione, capacità di distinguere.

 

La linea tra sicurezza e abuso, oggi più che mai, è sottile. 

Ma è una linea che dobbiamo sforzarci di vedere. 

Perché una difesa che dimentica l’umanità rischia di somigliare tragicamente all’aggressione da cui voleva salvarci.

Lobby, il lavoro che esiste ma non si può dire.

Social
image_pdfimage_print

di Roberta Baiano

 

In Italia non si può dire “lobby” senza provocare un sussulto.

Il termine evoca complotti, stanze chiuse, maneggi, interessi oscuri.

È un riflesso condizionato, più culturale che politico, alimentato da anni di retorica legalitaria e da una cronica incapacità di distinguere tra influenza e corruzione.

Il risultato?

Un paese dove i gruppi di pressione esistono e operano, ma dove fingiamo che non esistano affatto.

 

Eppure, la definizione è semplice.

Una lobby è un gruppo organizzato che rappresenta interessi specifici – economici, professionali, sociali – e cerca di dialogare con chi prende le decisioni pubbliche.

Non ha ruoli istituzionali, ma ha voce, dati, proposte.

Non ha potere diretto, ma lavora per orientare quello altrui.

Lo fa attraverso relazioni, incontri, analisi.

Niente di illegale, niente di segreto.

Almeno in teoria.

 

Il problema è che in Italia la parola “interesse” è ancora vista come qualcosa di sporco, incompatibile con l’idea astratta di bene comune.

Eppure, la democrazia è mediazione tra interessi, non negazione.

Il lavoro del lobbista – quando svolto alla luce del sole – è proprio questo: portare all’attenzione delle Istituzioni i bisogni di un settore, di una categoria, di un’organizzazione.

Farlo con numeri alla mano, proponendo soluzioni, cercando ascolto.

 

Esistono due strategie: quella diretta, che punta al confronto istituzionale, e quella indiretta, che agisce sull’opinione pubblica per spingere i politici a muoversi.

La prima è più frequentata dai soggetti con esperienza e risorse.

La seconda è la via di chi non ha ancora accesso ai canali di potere e si affida a campagne, petizioni, manifestazioni, storytelling.

Nella realtà, entrambi i canali sono legittimi.

Il nodo è la trasparenza.

 

Perché oggi l’opacità non riguarda tanto le lobby, quanto le Istituzioni che le incontrano.

Da anni si discute di una legge organica che regolamenti questa relazione, ma ogni tentativo si arena sulla soglia: si rendono trasparenti gli attori privati, ma si lascia nell’ombra il comportamento pubblico.

Chi entra è schedato, chi decide no.

Un paradosso che produce diffidenza, ambiguità, sfiducia.

 

Nel frattempo, Bruxelles continua a essere la vera capitale europea del lobbying, seconda solo a Washington.

Lì si registrano gli incontri, si dichiara chi rappresenta chi, si pubblicano i documenti.

In Italia, si continua a pensare che ascoltare una lobby sia già un compromesso, che la legge debba nascere pura e isolata, senza contaminazioni.

Intanto, però, le contaminazioni ci sono.

Solo che non si vedono.

“Odissea a Corfù, rientrati a Napoli oltre 100 turisti: ‘Sedici ore senza assistenza’”

Social
image_pdfimage_print

Sono atterrati a Napoli, nella tarda serata di venerdì, gli oltre 100 turisti rimasti bloccati per più di 16 ore all’aeroporto di Corfù. Il volo, programmato alle 6 del mattino, è decollato solo alle 22.45, costringendo famiglie con bambini e anziani – in alcuni casi con patologie – a un’attesa estenuante e senza assistenza adeguata continua la lettura….

1 4 5 6 7 8 37