Quando si guarda al mondo del lavoro, è impossibile non pensare al fatto che vi sono alcune cose ben chiare e altre meno. È ben noto a tutti, per esempio, quanto il panorama lavorativo si trovi sempre in una costante fase di cambiamento; e quanto ci sia, proprio per questo motivo, un sempre crescente bisogno di dimostrare di poter apportare una serie sempre nuova di competenze e di capacità.
Va da sé che proprio per questa motivazione è necessaria non solamente una cura approfondita del proprio curriculum vitae, che quindi da solo non può più essere sufficiente, ma diviene molto utile anche il prepararsi attentamente all’affrontare quella fase immediatamente successiva alla sua presentazione, che consiste in quella altrettanto cruciale del colloquio.
Il colloquio viene percepito da quasi ogni candidato come una fonte più o meno grande di stress, questo in special modo perché si sa che ci si troverà di fronte a un selezionatore, che proprio come un vecchio professore di scuola è pronto per porci delle domande e far cadere su di noi la scure del giudizio.
È vero che alcune delle domande poste dai recruiter mirano a mettere il candidato alla prova per osservarne le reazioni, ma così come un professore degno del suo nome non ha il compito di esprimere un giudizio sulla nostra persona, vale lo stesso per colui che ci siede di fronte in sede di colloquio.
Il compito del selezionatore in grado di saper svolgere professionalmente il proprio mestiere è quello di comprendere quanto un candidato sia adatto o meno per quel lavoro e di valutarne le competenze e le capacità in relazione all’eventuale possibilità di ricoprire o meno un ruolo specifico all’interno dell’azienda. Pertanto, è un fatto cruciale che le domande del recruiter riguardino esclusivamente la sfera professionale e mai quella privata. Così come è necessario che le risposte fornite restino nella stessa area di competenza.
È chiaro però che si tratta pur sempre di una persona, che proprio per questo motivo può fallire, mettendo in campo azioni discriminatorie, qualche volta volontariamente e qualche volta involontariamente. È qui che, di solito, sorgono le complicazioni.
I colloqui di lavoro non sono cosa nuova, per cui molti sono più o meno consapevoli della tipologia di domande che si troverà a dover affrontare, qualche genere a differenza di altri ha anche dovuto sviluppare un certo callo in proposito; eppure, sono ancora in pochi a essere a conoscenza di quali siano quelle proibite espressamente dalla legge.
È, per esempio, accettabile porre delle domande sulle capacità, sulle motivazioni e sulle aspirazioni future di un candidato, mantenendosi sempre in quel contesto professionale di cui sopra; lo è decisamente meno porre interrogativi discriminatori, le cui risposte possono influenzare il ricadere della scelta su un soggetto piuttosto che su un altro.
Durante l’intervista è, infatti, essenziale proteggere la privacy del candidato ed evitare di richiedere informazioni poco pertinenti alla posizione per cui è stata inviata l’application; ed è per questo che leggi specifiche ci vengono incontro stabilendo limiti molto chiari e utili al fine di preservare la sfera personale del candidato.
Il decreto legislativo numero 276 del 10 settembre 2003, noto anche come Attuazione delle deleghe in materia di occupazione e mercato del lavoro, contiene disposizioni volte a promuovere non solo l’uguaglianza di opportunità tra i sessi, ma anche a migliorare la qualità e la stabilità dell’occupazione. L’obiettivo del decreto è quello di sviluppare un sistema di strumenti efficace e coerente per garantire trasparenza ed efficacia nel mercato del lavoro, migliorando nel contempo le possibilità di inserimento professionale per i disoccupati e per coloro i quali sono alla ricerca della loro prima occupazione, facendo particolare attenzione alle fasce più vulnerabili.
Un articolo di particolare interesse è il numero 10 del decreto, e cioè quello che riguarda il divieto di indagini sulle opinioni e trattamenti discriminatori. Questa disposizione proibisce specificamente la conduzione di indagini, il trattamento dei dati e la preselezione dei lavoratori, anche se ottenuto il loro consenso, sulla base di criteri che per l’appunto risultano discriminatori.
Ecco che vengono esclusi chiaramente da qualsivoglia considerazione tutti quei criteri come le convinzioni personali, l’affiliazione sindacale o politica, il credo religioso, il sesso e l’orientamento sessuale, lo stato matrimoniale o di famiglia o di gravidanza, l’età, gli handicap o lo stato di salute, la razza o l’origine etnica o il colore, l’ascendenza o l’origine nazionale, il gruppo linguistico.
Inoltre, è vietato richiedere informazioni su eventuali dispute con il precedente datore di lavoro, a meno che tali controversie non influiscano sul modo in cui viene svolta l’attività lavorativa o costituiscano un requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell’attività lavorativa stessa.
Come già accennato, è altresì vietato trattare tutti quei dati personali dei lavoratori che non siano strettamente pertinenti alle loro competenze professionali e al loro inserimento lavorativo.
È in questo senso che va anche l’articolo 8 dello Statuto dei Lavoratori, il quale anche in attuazione del principio costituzionale ex articolo 41 della Costituzione, comma 1, secondo cui si stabilisce che l’attività economica privata non può essere condotta in modo contrario alla dignità umana, vieta al datore di lavoro di condurre qualsivoglia indagine.
Le indagini a cui si fa riferimento sono tutte quelle effettuate direttamente o indirettamente, durante la fase del processo di assunzione o anche nel corso del rapporto di lavoro, su opinioni politiche, religiose e sindacali del dipendente, così come su tutti quei fatti che non sono rilevanti ai fini della valutazione delle sue competenze professionali.
Concepito con l’obiettivo di porre fine a un precedente utilizzo della schedatura del personale, mira, quindi, a promuovere la tutela della dignità e della riservatezza del lavoratore. Questi diritti, correlati al trattamento dei dati, si intrecciano con la legislazione sulla privacy, e la sua validità continua a essere riconosciuta anche dall’articolo 113 del Codice della privacy, rubricato Raccolta di dati e pertinenze.
In aggiunta, il candidato può fare affidamento anche sull’articolo 27 del Codice delle Pari Opportunità, il quale stabilisce delle restrizioni importanti sulla discriminazione nell’accesso all’occupazione, sia esso di tipo subordinato, autonomo o di altra natura.
In modo più dettagliato, vieta qualsiasi forma di discriminazione, in ogni settore o ambito lavorativo, a ogni livello gerarchico, proibendo l’indagine sullo stato civile, la situazione familiare, la gravidanza, nonché la maternità e la paternità, anche nel caso di quella adottiva.
Infine, anche il decreto legislativo 215 del 2003, che recepisce la direttiva 2000/43/CE sulla parità di trattamento indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica, si estende a tutti i settori e si applica universalmente.
Viste tutte queste tutele giuridiche, a questo punto appare più chiaro quanto il colloquio di selezione richieda un elevato livello di professionalità; per cui il recruiter, sia esso il responsabile delle risorse umane o direttamente il datore di lavoro, debbano evitare di indirizzare le proprie domande estendendosi alla sfera personale del candidato.
Questi, dal canto suo, possiede tutto il diritto di rifiutarsi educatamente di rispondere, a segnalare la questione agli uffici competenti o, se necessario, addirittura richiedere assistenza legale.
Roberta Baiano